Fabrizio Floris, amico di vecchia data (anche se lui è giovane) che ha scritto libri e articoli sugli slum di Nairobi e dell’Italia (vedi i sui recenti dossier e articoli su Nigrizia e su Nuovo Progetto), in una lettera a Repubblica, ha cosi reagito all’articolo di Kennedy Odede che ho riprodotto nel blog precedente.
Fabrizio, come in modo diverso Ivan e Beppe nei commenti al blog, focalizza ciò che può cambiare una visita a Kibera da un furto di immagini e dignità a un momento di crescita reciproca. Certamente l’incontro che Fabrizio auspica è difficile che si realizzi un una visita turistica di tre ore, con guida a pagamento, come quelle che si possono organizzare anche attraverso alcuni siti in internet. Normalmente ci vuole un po più di tempo, capacità e voglia di entrare in comunione con gli altri, e sopratutto ci vuole una persona che ti aiuti a vedere al di là della materialità del luogo per capirne lo spirito. sattamente come in un tempio, usando l’appropriato paragone di Fabrizio.
GLI ITALIANI ALL’ESTERO E IL TURISMO DELLA POVERTÀ
da Repubblica — 19 agosto 2010, pagina 24, sezione: COMMENTI
Ho letto con interesse l’articolo di Kennedy Odede sul turismo della povertà e condivido molte delle sue considerazioni. D’altra parte ogni viaggio privo dell’incontro con l’altro è in qualche modo una forma di spettacolarizzazione, sia essa della natura o delle persone. Sono viaggi da cui ti porti dietro solo immagini che presto svaniscono come i serial di un format televisivo. Vedi scorrere volti, monumenti, paesaggi ma appena rientri tutto è finito. Possono restare dei trofei da esibire, fotografie spettacolari che nulla dicono dei luoghi, ma celebrano da eroe chi c’è stato. Più l’immagine sarà spaventosa, più l’autocelebrazione raggiungerà il suo scopo. Fotografa le fogne, i bambini che sniffano colla o che mangiano nella discarica solo così farai scalpore. Da tutto ciò non sono esenti neanche i racconti dei media. Ricordo che anni fa venne a Korogocho, slam alla periferia di Nairobi, un gruppo di visitatori e appena entrati nella baracca dopo il karibuni (benvenuti) di rito padre Paolo pose loro una domanda diretta: «Che cosa siete venuti a vedere? La puzza, le fogne a cielo aperto, i fumi della discarica, lo schifo?». Aggiungendo: «Se siete venuti a vedere questo allora siete scemi!». Poi fece un parallelo con chi andava a trovare Giovanni Battista nel deserto e nei giorni successivi scaturì la risposta: «Siamo venuti a vedere la fiducia nella vita di questa gente che riesce a mettere insieme il pranzo con la cena pur guadagnando pochi centesimi al giorno, siamo venuti a vedere il coraggio delle donne che riescono a vestire, nutrire e mandare a scuola i figli pur nelle difficili condizioni di Korogocho, siamo venuti a vedere l’entusiasmo dei giovani che non rinunciano ai propri diritti e alla propria consapevolezza e lottano ogni giorno, siamo venuti ad ascoltare la saggezza degli anziani, la luce negli occhi dei bambini che gridano juu, juu kabissa (su, su completamente)». Una lezione di vita per chi proviene da un paese rassegnato come l’Italia. Gli slums, sono come un tempio, un monumento storico, una città antica. Li puoi comprendere solo se qualcuno è in grado di raccontarteli, se sei accompagnato a vedere oltre ciò che appare, oltre l’estetica del luogo. Un turismo furtivo no, ma un incontro per costruire una società migliore sì. – Fabrizio Floris Torino