Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

March, 2009:

Quando non si vuol capire – When one does not want to understand

Scrive Famiglia Cristiana:  “L’investimento solo sul preservativo condanna a morte 22 milioni a mezzo di Africani che l’Aids ce l’hanno gia’. E’ una soluzione minimale, che nasconde l’ interesse di industrie, Governi e grandi Ong. Distribuire preservativi – dicono medici e associazioni africane – blocca nella gente una riflessione seria sulla sessualita’, la violenza sessuale, la dignita’ della donna. Evidentemente, a chi ha dimezzato gli aiuti allo sviluppo e alla cooperazione, e nega dignita’ ai popoli dell’ Africa, va bene cosi”
Parole che sottoscrivo una per una, come sottoscrivo il documento che viene dall’ Uganda e che trovate cliccando sul link indicato qui sotto.
Ma non ci si puo’ non domandare: l’ignoranza abissale su cause e conseguenze dell’ Aids in Africa cha hanno dimostrato i politici e commentatori europei quando hanno “bocciato” le parole di Papa Benedetto XVI in visita in Africa dieci giorni fa, e’ solo pura  ignoranza o anche malafede?

lenigma-della-prevenzione-dellaids-quali-sono-le-ragioni-del-papa

pan-3

Una nuova famiglia per gli indesiderati – A New Family for the Unwanted

Padre Biseko con una giovane malata mentale

Bernadetta e’ cieca. Trent’anni fa, quando era una giovani infermiera, non riusciva a liberasi dalla malaria che infesta la sua piccola citta’ sulla riva tanzaniana del lago Vittoria, Musoma, cosi prese dosi sempre crescenti di chinino, col risultato di danneggiare irreparabilmente i nervi ottici. Adesso ha i capelli grigi, e siede paziente con un sorriso sereno sul gradino della porta di quella che era la sua casa, una semplice stanza dai muri di mattoni cotti e un tetto di lamiera. Ma intorno a quello che era l’orto, adesso ci sono altre stanze e si e’ formato un cortile interno, con in un angolo una cappellina, nell’angolo opposto cucina, poco lontano docce e servizi. Tutto pulito, ma essenziale, africano, anzi, francescano. Unico segno di modernita’ e’, sul lato che fronteggia la strada sterrata che attraversa il quartiere, un mulino con un motore elettrico di pochi cavalli che riceve un costante flusso di clienti che vengono a macinare il frumento per la polenta quotidiana. Sulle altre porte si vedono persone con diverse disabilita’, alcune gravissime, e una manciata di bambini in eta’ scolare. In tutto poco piu’ di una ventina di persone.

L’anima di questa piccola comunita’ e’ padre Geofrey Biseko, prete diocesano tanzaniano che ha dedicato la sua vita a dare una famiglia a chi e’ stato rifiutato dalla sua famiglia.

“Nel gennaio del 1988 — racconta padre Biseko — ero un giovane prete. Il vescovo mi aveva chiesto di fare il suo segretario e il promotore vocazionale per la nostra diocesi. Le domeniche celebravo Messa la’ dove magari un missionario o un prete era assente per malattia o per vacanze oltremare. Un sabato ho incontrato un lebbroso che viveva di carita’, ed ho letto nei suoi occhi un appello disperato. Non ho potuto dormire. Mi sentivo chiamato a fare qualcosa, ma non sapevo bene che cosa. La mattina, a Messa, ho detto ai fedeli che dovevamo lasciarci sfidare dalle parole di Gesu’, che il Vangelo doveva entrare davvero nella nostra vita. Parlavo a loro, ma sopratutto a me. Al termine della Messa ho invitato chi si sentiva ispirato a far qualcosa per i piu’ poveri e abbandonati ad incontrarci il sabato successivo. Sono arrivati in dodici. E’ stato il primo di una serie di segni che lentamente mi hanno fatto capire che il servizio ai poveri abbandonati era la mia vocazione. Abbiamo incominciato ad andare a visitare i poveri che vivevano in strada, poi Bernadetta ha messo questo sua casa e terreno a nostra disposizione. Altri hanno cominciato a donarci vestiti smessi e a portarci un po’ di cibo. Nel 1994 il vescovo mi ha esentato da ogni altro incarico e da allora sono qui, con quattro uomini che mi aiutano. Abbiamo aggiunto altre stanzette man mano che ricevevamo qualche donazione, abbiamo imparato a vivere condividendo il poco che gli altri, sopratutto i cristiani del nostro quartiere, condividono con noi. Non ce’ nessuno qui nel nostro quartiere che e’ ricco, ma ci arriva il sufficiente per sopravvivere, piu’ qualche occasionale donazione dall’ estero, come quella che ci e’ servita per acquistare il mulino. Adesso abbiamo anche una casa piu’ grande, a venti kilometri da qui, con un centinaio di ospiti e una quindicina di donne che li servono. Anche la’ sono tutte stanzette o camerate senza acqua a luce, la cappella e la cucina sono in comune, e nel refettorio c’e perfino la luce, con un pannello solare. Ma stare insieme fa bene, a loro ma sopratutto a noi. Ci chiamiamo Watumishi wa Upendi, cioe’ Servi dell’Amore. Tutto qui”.

Padre Biseko fa questo breve riassunto dei suo venti’anni di servizio nel suo “ufficio” una stanza con due divani vecchi e coperti di polvere perche’ le fessure della porta, e quelle che ci sono fra i muri e il tetto di lamiera non riusciranno mai a fermarla. Poi fa il giro del cortile salutando tutti.

C’e’ chi e’ spaventosamente anchilosato, chi e’ sordomuto dalla nascita, chi ha perso la ragione per una disgrazia familiare ed ora guarda nel vuoto ripetendo sempre la stessa litania di parole incomprensibili. Sorprendentemente, non ci si sente sopraffatti della disperazione, ma si e’ presi dalla semplicità‘ e spontaneità‘ dei rapporti. Qui davvero, e’ una nuova famiglia.

Padre Biseko scambia qualche parola, una stretta di mano con tutti. Ha una sorriso felice che contagia tutti. Intanto racconta del suo dispiacere di vedere come la gente stia perdendo i valori tradizionali, e quando alcuni persone come queste diventano un peso troppo grosso li scaricano in strada o appena fuori dall’ ingresso della sua casa. “Finora, pero’, siamo riusciti a non rifiutare mai nessuno, anche se negli ultimi anni abbiamo due o tre persone nuove al mese”. Ha solo un rimpianto, quello di aver fallito coi bambini di strada. Ce ne sono pochi qui a Musoma, ma nonostante si sia impegnato piu’ volte ad aiutare alcuni di loro non sono mai resistiti nella casa per piu’ di qualche settimana. Ce ne sono oggi solo sei o sette, e si stanno divertendo a disegnare. Uno di loro sta facendo colorando quella che, nonostante l’imperizia dell’ artista, si riconosce subito come la scena di San Francesco che parla agli uccelli. Qui Francesco e’ di casa.

Si lascia il piccolo cortile con la bella sensazione di aver incontrato una cellula viva e genuina della chiesa africana. Una piccola chiesa che ama, che cammina con i poveri, che agisce dal basso senza fare rumore. Quante esperienze ci sono in Africa come quella di padre Biseko? Ne conosco poche, ma anche fosse solo questa e’ un segno luminoso che contrasta tante altre debolezze. Si parlera’ queste esperienze nel prossimo sinodo africano che si terra’ a Roma in ottobre e che ha come titolo «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace»?

Speriamo di si’, perche’ giustizia e pace non si costruiscono con i grandi discorsi e documenti delle conferenze episcopali, con gli incontri internazionali, con le mediazioni di pace piu’ o meno riuscite — per lo meno non solo con quelli — ma piuttosto con l’ amore fattivo di tanti come padre Biseko.

NB. Ho domandato a Padre Biseko: “mi puoi dare la tua email? La vorrei mettere nel mio blog, magari qualcuno ti vorrebbe contattare, o mandarti un aiuto”. MI ha guardato sorpreso, ed ha risposto “Io sono un pollo locale! Sono nato a poche centinaia di metri da qui, ed ho vissuto qui tutta la mia vita. Non ho un computer, un indirizzo di posta elettronica, niente del genere. Mi servo dell’ indirizzo postale della Diocesi di Musoma, P. O. Box 93, Musoma, Tanzania”

Due piccoli ospiti

Due piccoli ospiti

Missione Zambia

A fine dicembre un gruppo di giovani clown dell’ associazione Vivere in Positivo hanno visitato il nostro Mthunzi, a Lusaka. Sono stato qualche giorno con loro. Sono ragazzi – in verita’ il gruppo venuto a Lusaka era composto in grande maggioranza da ragazze – che fanno volontariato come clown in ospedale per alleggerire le sofferenze dei pazienti, specialmente dei bambini. Quindi sono persone particolarmente sensibili e comunicative, e sono entrate subito in sintonia con i nostri ragazzi. Ho chiesto loro di mandare una breve presentazione della loro associazione, ma si fanno attendere, allora metto qui sotto per il momento la breve relazione di una di loro, molto immediata. Leggendola, mi veniva di riflettere: ma perche’ le domande che si fa adesso non le ha fatte quando era in Zambia? E’ una delle cose che io ho imparato a fare: con delicatezza, aspettando il momento piu’ opportuno, bisogna domandare perche’ poi dalle risposte si imcomiciano a capire tante cose e si avvia il dialogo a l’ apprezzamento reciproco. Ma forse Ciriola aveva troppe domande e non e’ riuscita ad esprimerle tutte mentre era a Lusaka.

27 dicembre 08 – 12 gennaio 09

Non amo scrivere ma stamattina mi è venuta voglia di mettere nero su bianco le sensazioni sullo Zambia.

Sono in treno, e accendo, come tutte le mattine ormai, il mio ipod con le canzoni che ci hanno dato i ragazzi del Mthunzi. Solo al pensiero già mi si riempiono gli occhi di lacrime per la malinconia. Penso di essere stata in trance per 2 settimane lì e forse un po’ lo sono ancora. Se non fosse per il tamburo (scelto accuratamente da Rickon e Richard), il grande batik appeso al muro sopra il mio letto ed il piccolo ippopotamo in pietra fatto da Bernard e Jonas……., penserei che è stato solo uno splendido, meraviglioso, incredibile sogno.

Non so se prima parlerò delle cose brutte e poi di quelle belle.

Arriviamo il 28 dicembre 2008 all’aeroporto di Lusaka. Fin qui è tutto molto normale, almeno se sei del sud oppure hai atterrato almeno una volta all’aeroporto di Reggio Calabria, perché dopo l’atterraggio prendi i tuoi bagagli a mano e a piedi ti dirigi verso l’uscita. Ad aspettarti tanti ragazzi che fanno i facchini per una mancia, e anche qui la sensazione di trovarmi nella Sicilia di un tempo. Ed ecco adesso il nostro fantastico pulmino (della famiglia Bredford, per chi se lo ricorda), con la meravigliosa scritta “MTHUNZI CENTER”, omologato per 9 ma non eravamo mai meno di 16. Lì, il mitico Joseph (uno degli educatori che cerca di mandare avanti il centro nel miglior modo possibile) ed il fantastico Malama (molto Big Jim), commercialista, autista, insomma un po’ un tutto fare del centro, sempre molto profumato e vestito alla moda (in passato faceva il DJ nei locali).

Quindi si parte tutti con i nostri bagagli verso il centro.

Il periodo scelto per partire credo sia il più bello poiché vedi un’Africa che non immagineresti nemmeno. E’ di un verde pazzesco, così vivo, acceso, meraviglioso. Non puoi capacitartene del fatto che poi diventerà tutto così arido e secco da far paura.

La prima parte del viaggio sembrava molto normale, sembrava di essere in una normalissima città. Palazzoni, centro commerciale etc. ma ad un tratto il pulmino fa una svolta e lì il paesaggio cambia improvvisamente, non più asfalto ma tanta terra rossa e sassi, buche, pozzanghere. La cosa, però, più terribile era quella di trovare tutti i giorni, dall’alba al tramonto, sul ciglio della strada, bambini e mamme che spaccavano delle grosse pietre per farne di piccolissime e poi metterle in un sacchetto e venderle al miglior offerente camionista (credo le usassero nell’edilizia). Accanto a loro una capanna fatta di soli 4 paletti rivestiti di sacchetti di plastica dove riposarsi per pochi minuti, quando sei troppo stanco ed il sole diventa troppo cocente.

Prima domanda: “Ma gli uomini dove sono?”

Arriviamo al centro e tutto sembra molto tranquillo. Scarichiamo i bagagli e iniziamo a preparare i nostri letti per vincere le zanzare, poi cena, qualche chiacchiera e a letto che domani si inizia presto.

Iniziano così le nostre giornate, scandite da visite nei villaggi, giochi con i bambini, visita alle scuole, distribuzione del materiale portato dall’Italia, visita alla clinica, all’ospedale di Lusaka e poi chiacchiere, canti, musica e balli con i ragazzi del Mthunzi.

A pranzo e a cena eravamo sempre una marea di gente e quindi si cucinava tantissimo (mitica Pallola) e mi sembrava strano, delle volte, buttare il cibo che avanzava, in Africa. Diciamo che forse dipendeva dal fatto che non c’era il frigo oppure dal fatto che quando arrivano gli Italiani è davvero una festa, però, comunque mi faceva un certo effetto fare un gesto del genere lì. Poi i nostri commensali si preparavano dei piatti stracolmi, che puntualmente non riuscivano a finire e quindi altro cibo buttato. Che strano!!!

Quando si andava in giro non si cercava mai di organizzare il tragitto in modo da ottimizzare i tempi e sprecare meno benzina ma si andava su e giù. Che strano!!!

Forse perché per loro quelle 2 settimane con i Muzungu (uomo bianco) erano una festa. Non so.

In Africa i tempi sono veramente molto lenti, direi quasi snervante come situazione però poi ti ci abitui ed effettivamente cominci a godertela di più.

I bambini dei villaggi erano splendidi, sempre allegri e molto disciplinati. Lì il più grande guarda il più piccolo, si ha cura l’uno dell’altro. Nessuno sembra apparentemente abbandonato a se stesso.

Cosa differente, invece, nei quartieri poveri della città, dove vige la legge del più forte. La ragazza più grande da uno spintone al bimbo piccolo per rubargli la caramella ed in precedenza aveva rubato almeno 4 braccialetti colorati alle altre bimbe. Mentre sei tranquillo in macchina con il finestrino aperto ecco che all’improvviso ti rubano gli occhiali dal viso. Insomma in città è meglio stare sempre con gli occhi bene aperti e magari sempre scortati. I ragazzi erano grandi in questo, erano sempre con noi, non ci mollavano mai, erano ormai diventati i nostri stupendi “Bodyguards.”

Cosa molto importante era anche quella di chiedere sempre ai ragazzi se nei posti dove ci trovavamo potevamo fare foto, perché poteva essere molto pericoloso se lo facevamo in posti dove non gradivano.

Adesso è appena passato un mese dal nostro ritorno e ancora, ogni tanto, mi sembra ieri e allo stesso tempo una vita fa. Come il tempo in Africa, certi giorni ti sembra di essere lì da sempre, altri invece, di essere appena arrivata. Le giornate ti sembrano lunghissime e ti sembra che in un giorno riesci a fare una marea di cose. Poi senti così forte il calore del posto, il calore della gente, di tutti quei bambini, i loro sorrisi, le loro mani e i loro occhi che ti cercano. E’ meraviglioso!!!!

Non può finire qui. Sento che l’Africa mi chiama e mi desidera, come io desidero Lei.

I bambini e i ragazzi del Mthunzi ci aspettano, non possiamo deluderli. Anche se lontani noi tutti con loro staremo insieme in ogni dove. La canzone dice: “SOMEWHERE OVER THE RAINBOW……” come i 2 arcobaleni dai colori super intensi che ci hanno accolto e accompagnato al nostro arrivo dall’aeroporto di Lusaka e a Mthunzi.

Cosa ti rimane dentro dell’Africa? Io penso che non sia tanto l’ingiustizia e la povertà che vedi attorno a te, anche se terribile, quanto le persone, i loro volti, i loro occhi vivi, i loro sorrisi, la vitalità dei bambini (in realtà già grandi), dei ragazzi (in realtà già adulti). La loro sincerità, semplicità e soprattutto la loro DIGNITA’.

Dov’è finito in noi tutto questo?

LIBERTA’? Nonostante i diversi disagi che vivono il loro mondo ed il nostro, chi si può considerare un uomo veramente libero, NOI o LORO?

Ciriola

Non servirci dei poveri

Don Milani, lo cito a memoria, diceva che dobbiamo a servire i poveri, ma stare bene attenti a non servirci di loro. Ho letto che Clodovis Boff, fratello del più conosciuto Leonardo, sta preparando un testo intitolato “Con Cristo e con i poveri, contro coloro che strumentalizzano la povertà”. Con la sua seria riflessione teologica, che spero di leggere presto, potrà magari aiutarci ad approfondire questo tema affascinante, e di continua attualità nella chiesa, e non solo.
Me lo ha ricordato un confratello, che mi ha scritto una lettera dura, perché pensava che fossi io il responsabile di una iniziativa che coinvolge alcune persone degli slums di Nairobi e che lui giudica come sfruttamento della povertà. Io non ho niente a che fare con quell’ iniziativa, ma sarei più cauto prima di dare giudizi assolutamente negativi e moralmente inappellabili.
Accettare le ingiustizie che creano la povertà, sfruttare i poveri, servirsi dei poveri per la propria gloria sono aspetti diversi di uno stesso male. E purtroppo la tentazione di servirsi dei poveri per i propri interessi e sempre presente, anche fra coloro che professano di servirli. Lo vediamo con evidenza nelle gigantesche macchine internazionali per combattere la fame e la povertà, in certe ONG, ma anche nella chiesa.
Tutti conosciamo certi campioni dei poveri… e magari abbiamo dei sospetti. Ma non abbiamo nessun diritto di giudicare le motivazioni degli altri. Io per esempio ricordo con affetto un personaggio che era molto famoso quando ero ragazzo, Raoul Follereaux, conosciuto in tutto il mondo per la sua campagna a favore dei malati di lebbra. Mi mi dava un po fastidio quel suo presentarsi sempre con il bastone e il cravattino a farfalla, e altri suoi atteggiamenti quasi da palcoscenico. Poi ho avuto l’ occasione di incontrarlo perché a tradurre i suoi libri in italiano era padre Gianni Corti, il comboniano di Lecco che mi aveva fatto conoscere i comboniani, e i suoi libri erano pubblicati in Italia dalla nostra casa editrice. Imparai ad apprezzarlo ma non mi aveva ancora convinto del tutto. L’ ultima volta che lo incontrai, un paio d’anni prima che morisse, forse indovinando il mio pensiero, mi disse confidenzialmente, alla presenza della sua dolcissima inseparabile moglie “vedi, ormai devo fare il personaggio, la bandiera. Non posso fare più altro per i lebbrosi. Mi fa male, ma se essere usato cosi serve alla loro cause, cosi sia”. Raramente ho sentito qualcuno parlare con più sincerità e umiltà. E capii tutta la grandezza di quell’ uomo che si era logorato nel servizio a cui si era sentito chiamato.
Certo dobbiamo sempre confrontare le nostre azioni col Vangelo, col buon senso, e, parlando di sociale, con gli strumenti di analisi che le scienze ci offrono. Ma chi si mette in una posizione ideologica da “puro” rischia di diventare cieco tanto quanto coloro che sono accecati dall’ egoismo, e di fare più errori degli altri.
Meglio non giudicare le intenzioni, e attendere di vedere i frutti – che possono essere solo persone e non cose – perché le motivazioni degli altri, specialmente quando si tratta di motivazioni che segnano una vita in modo profondo, sono sempre un mistero e, anche nel migliore dei casi, un insieme di slanci ideali ma senza mai escludere che possano essere presenti piccolezze, perfino di meschinità. E’ nella nostra natura umana. Ancora più pericolosamente, il nostro giudizio sugli altri rivela il nostro più intimo modo di pensare. Cosi chi ha accusato Madre Teresa di Calcutta di essersi servita dei poveri per costruire la sua immagine di santa, ha fatto certo più danno alla sua reputazione che a quella di Madre Teresa.
Nella nostre decisioni c’e’ sempre una dimensione di egoismo, e il tenerlo sotto controllo e’ un problema che si ripresenta sempre.
A volte, quando mi devo alzare al mattino molto presto per finire un lavoro, per scrivere un articolo, e magari il giorno precedente ho avuto gravi delusioni e problemi, devo fare uno sforzo cosciente e pensare ai bambini/e e ragazzi/e insieme ai quali sono impegnato a migliorare la loro vita e la mia per poter incominciare il giorno con entusiasmo. E allora magari mi sento con la coscienza a posto, mi convinco che sto facendo un servizio. Altre volte, quando va tutto bene, quando sono in giro coi bambini che riscuotono simpatia e affetto e arrivano aiuti per fare un progetto, costruire un’ altra casa, devo continuamente per non pensare che in qualche modo tutto questo sia il risultato del mio lavoro, invece che un lavoro collettivo. E’ sempre difficile giudicare la motivazioni, anche le proprie: misurare la percentuale di dedizione, di servizio e quella di amor proprio e gratificazione.
E se analizziamo troppo, giudichiamo troppo, finiamo per paralizzarci, per non fare più niente. Il che potrebbe anche essere una bella scappatoia, ma non ci fa fare molta strada, ne a noi ne agli amici che ci sono vicini con i quali condividiamo il nostro faticoso quotidiano cammino.

Italiano English
This blog is multi language by p.osting.it's Babel