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March, 2008:

I Lineamenta e la Società Africana: un’Analisi Zoppa

Nel documento preparatorio al Sinodo mancano un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e un serio esame della situazione presente. Il pericolo è che da valutazioni generiche non potranno che scaturire visioni e proposte altrettanto generiche e inefficaci.

Il primo capitolo dei Lineamenta per il prossimo Sinodo africano – “L’Africa all’alba del 21° secolo” – è forse il più debole dell’intero documento. L’analisi proposta della situazione dell’Africa odierna elenca “alcune evoluzioni positive” (6-7) e “alcuni sviluppi negativi” (8) avvenuti dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995), identifica “alcune priorità a livello socio-politico, socio-economico e socio-culturale” (10-23), esamina il ruolo che le religioni tradizionali africane, l’islam e le altre denominazioni cristiane possono dare “al servizio della riconciliazione, della pace e della giustizia in Africa” (24-29), e conclude con alcune impegnative domande e un primo abbozzo di risposta.

Nel capitolo ci sono 20 note di riferimento: 6 a discorsi e documenti papali, 11 ai Lineamenta, all’Instrumentum laboris e documento finale del primo sinodo, 1 al sito Internet del Symposium delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), 1 all’annuario statistico della chiesa e 1 alla beata Elisabetta della Trinità, suora e mistica francese morta all’inizio del secolo scorso.

Tutto il capitolo è una enumerazione ragionata di fatti e di grandi tendenze, senza, però, un vero tentativo d’interpretazione. Un mero elenco – neppure esaustivo – che potrebbe essere fatto senza difficoltà da un giornalista mediamente competente sui fatti africani. Sorprende la totale assenza di voci che non siano strettamente ecclesiastiche. Ed è su questo elenco di fatti e autocitazioni che sono sviluppate le prospettive teologiche dei capitoli successivi.

Se si vuole fare teologia e suggerire proposte di programmi pastorali che incidano, è necessaria un’attenta analisi della società africana odierna. Un sinodo, del resto, intende un momento di autocomprensione e di presa di coscienza delle situazioni di un dato momento in vista di un maggiore impegno nel futuro. In caso contrario, si rischia – come è successo con il primo sinodo – di produrre un documento finale che non sa provocare veri cambiamenti.

Un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e una seria analisi della situazione presente non sembrano essere state fra le priorità degli estensori dei nuovi Lineamenta. Forse questi hanno voluto lasciare il compito al sinodo stesso. Ma l’esperienza di simili precedenti assisi induce a dubitare che un lavoro del genere possa essere fatto in aula. Sta di fatto che da analisi generiche non potranno che scaturire visioni e proposte generiche e inefficaci.

Il successo della teologia della liberazione in America Latina è dovuto al fatto che essa è nata e fiorita da un’analisi della società ampiamente condivisa da comunità cristiane, congregazioni religiose e vescovi. Insomma, una riflessione con profonde radici nel popolo cristiano.

In Africa, invece, un’analisi della società e dei problemi odierni non è stata ancora proposta, tanto meno condivisa. Se si parla con i cristiani del Sud Sudan – da poco usciti da una guerra civile, ma tuttora a rischio di ricaderci – sorprende notare come la loro analisi socio-politica si rifà esclusivamente alle posizioni dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla) o di altri partiti. Non sono ancora capaci di formulare una propria visione della società che sia influenzata dalla fede cristiana: il messaggio evangelico viene “tirato in ballo” come cappello finale, senza alcuna efficacia storica.

La stessa cosa è balzata agli occhi durante la recente crisi del Kenya. In interviste alla radio si sono udite allucinanti dichiarazioni di cristiani: ammettevano di aver preso parte all’uccisione di persone o di aver bruciato le case di vicini per costringerli ad andarsene, affermavano di essere pentiti, ma s’affrettavano ad aggiungere che avrebbero rifatto le stesse cose se i vicini fossero tornati. La maggioranza dei cristiani kenyani è stata vittima di una esasperata interpretazione tribalistica dei fatti: non hanno capito che tale interpretazione nascondeva una sporca guerra per il potere economico delle due parti in causa, né la presenza di forze esterne, guidate da interessi particolaristici. Un tragico scollamento fra vita e fede, questa seconda intesa solo come guida per opzioni morali personali.

Il sta proprio nella mancanza di un’analisi sociale e di un “giudizio” cristiano condiviso sulla storia presente. Gli stessi leader religiosi spesso sembrano incapaci di vedere al di là del proprio angolino di mondo, troppo coinvolti nella loro piccola realtà tribale: avere una nipote che ha sposato un certo uomo politico può significare la possibilità di scorciatoie nelle pratiche burocratiche, non ricusando forme di corruzione (magari non a livello di mazzette, ma di scambi di favori e di silenzi colpevoli).

Se riteniamo indispensabile una presenza cristiana nel campo sociale, allora è necessario far crescere la consapevolezza dei problemi, delle ingiustizie, delle forze che sfruttano l’Africa solo come campo di battaglia.

In un recentissimo saggio, che ha il pregio di tentare di capire le ragioni delle guerre africane (L’Africa in guerra – I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2008), Alberto Sciortino scrive: «Le guerre africane, se non ci si vuole fermare agli aspetti apparenti e superficiali, sono interpretabili a tre livelli. Un primo livello è quello della lotta per la conquista del potere all’interno del ceto politico continentale: in questo senso la grande diffusione della conflittualità e della corruzione tra le classi dirigenti sono due aspetti degli stessi processi. Un secondo livello è quello del controllo dello sfruttamento delle risorse, spesso illegale anche se praticato dai governi: questo sistema economico implica la guerra come suo elemento costitutivo (…) modifica a proprio vantaggio l’intera struttura produttiva delle aree interessare e crea nuovi equilibri sociali che tendono a perpetuare i conflitti. Il terzo livello è quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata, a cominciare dalla contesa per le risorse energetiche».

È solo un esempio – più o meno condivisibile – di un tentativo di capire. Sarebbe importante che il prossimo sinodo, dedicato non solo alla riconciliazione, ma anche alla giustizia e alla pace, ci regalasse una visione condivisa di quello che sta succedendo in Africa e di come potremmo reagire come cristiani. Se è troppo chiedere questo, si potrebbe almeno cominciare a muoverci in quella direzione, avviando un processo che renda i cristiani africani attori più informati e consapevoli della storia odierna.

The Koinonia Children Choir

Ieri mattina la maggioranza dei ragazze e ragazzi de tutti i progetti che Koinonia gestisce a Nairobi si sono ritrovati a Kivuli per celebrare insieme la Pasqua. Una folla di quasi 300 giovani, di tutti i diversi popoli del Kenya, accomunati dalla voglia di vita e di risurrezione.

Ho fatto un breve commento al Vangelo, ed ho creduto importante raccontare di Daniel e di Martha. Man mano che procedevo nel racconto l’ attenzione si e’ fatta tesissima. Nessuno dei presenti,  a parte i nostri operatori sociali, li conoscevano, ma i fatti che raccontavo erano parte della loro esperienza di vita in strada. Abbiamo insieme promesso che ci impegniamo in tutti i modi possibili perché episodi di questo tipo non si ripetano più.

Dopo il pasto di riso, verdura e carne si sono scatenati i nostri acrobati, attori, cantanti rapper, danzatori, giocolieri. E per la prima volta si e’ esibito il Koinonia Children Choir. Settantotto coristi provenienti da tutte le nostre case. Devo ammettere che non e’ stato un gran  successo, hanno bisogno ancora di tanta pratica, ma erano i “nostri’ e tutti hanno tifato per loro.

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Daniel

Si chiamava Daniel Mburu, avrà avuto 16 anni, ed era un uno dei più giovani nel gruppo dei ragazzi e ragazze di strada che vivono nutrendosi dei rifiuti del Kenyatta Market. Sabato sera, Sabato Santo, mentre ci preparavamo a celebrare la Resurrezione, Daniel con altri amici era nella sua solita area. E’ incominciato a piovere forte – e’ ormai quasi una settimana che la stagione delle piogge e’ iniziata – e Daniel  ha deciso di prendere un autobus che andava verso il centro di Kibera. “Ho i soldi per pagare due biglietti” ha detto agli amici, cosi Martha Ngocha, una ragazzina di forse 14 anni, e’ saltata sull ‘autobus con lui. Ma quando il bigliettaio li ha visti e li ha giudicati come gente di strada, non ha voluto sentir ragioni e li ha brutalmente spinti fuori dalla porta del veicolo che si era appena rimesso in movimento. Daniel e’ caduto ed ha picchiato la testa sul marciapiede, Martha ha avuto la sua caduta protetta dal corpo di Daniel, ma poi la ruota posteriore dell’ autobus le e’ passata sopra spezzandole una gamba.

Gli amici li hanno presi di peso e li hanno portati all’ ospedale, ce n’e’ uno non troppo lontano. All’ ospedale hanno detto che ormai Daniel era morto, potevano lasciare Martha che l’avrebbero ingessata. Cosi gli amici col corpo di Daniel, al buoi, evitando le auto che sfrecciavano sotto la pioggia, sono andati prima alla stazione di polizia e denunciare il fatto, e poi lo hanno portato all’ obitorio pubblico.

Bonny c’era. Non manca mai quando qualcosa di importante succede ai suoi amici del Kenyatta Market. Mi ha mandato un sms, ma ormai non c’era più niente da fare.

Stiamo solo cercando di denunciare questo fatto. Non si deve morire cosi, buttati fuori da un autobus come un sacco di spazzatura, a 16 anni. Dopo una vita di abusi e di stenti.

Ma anche questa e’ una storia di Pasqua a Nairobi.

La Gioia di Donarsi

Ieri sera ho celebrato il memoriale dell’ Ultima Cena a Kivuli. Come al solito i bambini stessi hanno preparato le letture ed hanno fatto dei brevi commenti, e poi e’ stato il mio turno. Ho chiesto al piccolo Clinton – a Kivuli oltre a Clinton abbiamo altri presidenti, come Nelson Mandela, Kennedy e perfino Reagan, ma ancora non c’e’ nessun Bush – che mi sedeva vicino di alzarsi, e mostrandolo a tutti ho fatto notare che anche se avessimo voluto non avremmo mai potuto separare il corpo di Clinton dalla sua anima, o dalla sua mente o dai suoi sentimenti.

Noi siamo un’unica cosa, e il corpo e’ un grande dono che ci permette di essere le persone che siamo, e di comunicare, di donare il nostro amore agli altri. Col corpo possiamo lavorare per gli altri, possiamo accarezzarli e consolarli. La loro mamma ha dato loro la vita e li ha portati nel suo corpo per nove mesi, nutrendoli di se stessa, bene attenta a non far loro del male. E il nostro corpo viene da una lunga lista di persone che si sono volute bene, un dono che ci viene dai nostri genitori, dai nostri antenati, da Dio. Ecco perche’ Gesu’ ci ha donato il suo corpo. In in quella notte che appariva senza speranza Gesu’ ha dato tutto se stesso, ai sui amici ed ai suoi nemici, per amore di tutti, in comunione con tutti, donando il suo corpo. Ed ecco perche’ essere seguaci di Gesu’ significa essere molto concreti, amare gli altri servendoli anche nei loro bisogni apparentemente piu’ umili come la necessita’ di mangiare, di essere puliti, di curare le malattie.

I ragazzi guadavano Clinton e assentivano. Ed hanno capito, perche’ poi i “dodici apostoli” si sono lasciati lavare i piedi raccolti e compunti, guardano l’acqua che li puliva, e le mie mani, come le vedessero per la prima volta. Alla fine ho ricordato che quello stesso corpo di Gesu’, donato e pi spezzato sulla croce, e’ lo stesso corpo che risorge e ci riempie di una vita nuova.

Mi ero ispirato ad un articolo di Timothy Radcliffe, che e’ stato superiore dei domenicani, intitolato The joy of giving ourselves o La gioia di donarsi e che e’ stato pubblicato recentemente su The Tablet, forse la piu’ intelligente rivista mensile cattolica del mondo anglofono. Radcliffe imposta la sua riflessione partendo dall’ Eucarestia, dal dono che Gesu’ fa del suo corpo, per arrivare ad una visone cristiana della sessualità, superando il dualismo corpo–anima che tanto ha danneggiato la spiritualità cristiana. Nel mio contesto non era il caso di arrivare alle conclusioni di Radcliffe, ma la risposta positiva immediata dei ragazzi mi ha confermato una volta di piu’ quanto siano aperti a guardare la vita con occhi veramente cristiani e veramente africani.

Buona Pasqua a tutti.
(traduzione di Matteo Battisti)

Viaggi & Viaggi (continuazione da ieri)

Ci avviamo verso la capanna del mek, e foriamo… Abbiamo solo una ruota di scorta, un’altra foratura e non ci muoveremo piu’. Comunque cambiamo la ruota e sono ormai passate le 11 quando arriviamo vicino alla capanna del mek. Non si scompone, sta dormendo all’ aperto su un tradizionale hangareb. Si infila la giallaba e ci riceve con grande gentilezza. Ancora acqua, ancora kisra con carne. Bisogna per forza rilassarsi e non pensare a che non abbiamo piu’ diesel e ruota di scorta. Il mek avra’ quarant’anni, parla un inglese stentato ma preciso e comprensibile, e’ estremamente gentile e contento della nostra visita. Dopo ulteriori convenevoli e una tazza di the caldo ci fa indicare le capanne dove passare la notte.

Al mattino grande raduno, presentazione di tutti, e visita ufficiale all’ unica cosa che il mek considera all’ altezza dei visitatori: la scuola. Con nostra meraviglia infatti troviamo una scuola elementare con quasi 400 bambini e due maestrine arabe, inviate da Khartoum. L’ edificio e’ in pietre, mattoni e cemento, terminato da pochi mesi,  col tetto in lamiere zincate, molto solido e spazioso, potrebbe ospitare almeno il doppio degli alunni. Il mek ci chiede con insistenza di inviargli due altri maestri, perche’ le due ragazze non ce la fanno.

Intanto vediamo quanto sia vero quello che mi avevano riportato. In conseguenza di fatti non ancora chiari avvenuti alla fine degli anni 80 – un attacco militare di cui governo e SPLA si attribuiscono reciprocamente la responsabilita’ – tutto il villaggio di Kau e’ passato dalla parte del governo e sono tutti ufficialmente musulmani. La nudita’ delle foto della Riefenstahl non solo e’ scomparsa sotto le grandi gellaba, ma e’ vissuta come un passato di cui vergognarsi. I disegni tradizionali sono scomparsi dappertutto. Resta il paesaggio di grandi rocce, l’architettura della capanne simile a quelle dei Dogon del’ Burkina Faso, ma durante la lotta che organizzano per noi al pomeriggio sembra che i lottatori si siano messi addosso tutti i vestiti che avevano a disposizione. E’ penoso che un passato di grande bellezza, che esprimeva certamente una grande armonia interiore, sia stato non solo cancellato, ma demonizzato. Ma ogni accenno all’ argomento, ogni richiesta di incontrare persone che hanno conosciuto la Riefenstahl, causa irrigidimento e chiusura. Il mek sa che sono un missionario, chiede una nostra presenza, fatica a capire che e’ una richiesta che va ben al di la’ delle mie forze. Ma gli prometto che appena possibile gli manderemo da Kauda due dei nostri maestri.

Dove’ il piu’ vicino distributore di diesel? A Kauda. Ma a qualcuno viene in mente che c’era un mulino per macinare il mais, e’ rotto ormai da anni, ma quando funzionava aveva un motore diesel. Non ci sembra vero quando troviamo quasi cento litri di diesel in un vecchio bidone.

Il ritorno fu peggio dell’ andata. Il diesel era sporchissimo e inizialmente ogni venti kilometri poi smepre piu’ spesso. dovevamo fermarci e pompare a forza il diesel attraverso il filtro, dopo aver cercato in qualche modo di pulirlo. Ma siamo rientrati, perfino senza un’ altra foratura.

Era il marzo del 2066. Non sono riuscito a mantenere la promessa di mandare i maestri a Kau se non nell’ ottobre del 207, e per farmi perdonare di maestri gliene ho mandati tre. Con l’ istruzione di essere una presenza discreta, che si impegnino al massimo per far crescere la qualita’ dell’ insegnamento nella scuola, di essere anche al servizio delle richieste di alfabetizzazione degli adulti. E di rispettare la cultura e le scelte presenti della gente.

Due dei nostri maestri missionari erano a Kauda in questi giorni, per chiedere altri libri e quaderni. Ci sono arrivati dopo un viaggio di tre giorni, in parte a piedi e in parte con passaggi sui pittoreschi camion dei mercanti arabi che di tanto in tanto passano per queste strade. Come vanno le cose a Kau? “Bene, i bambini assorbono l’ insegnamento come spugne. Ogni tanto c’e’ qualche brontolio di qualche isolato fanatico musulmano contro questi maestri mandati da un bianco, ma la gente e’ buona e gentile, ed e’ contenta della nostra presenza. Se Dio vuole, aiuteremo a stabilere un buon dialogo con tutti.”.

Viaggi & Viaggi

Sono a Loki. Era uno sperduto villaggio Turkana nel Nord del Kenya, al confine col Sudan, quando ci sono passato la prima volta nel febbraio del 1989, successivamente e’ diventato centro operativo della quella che e’ stata la piu’ lunga e costosa operazione umanitaria delle Nazioni Unite, l’ Operation Lifeline Sudan, o OLS. Sono appena uscito dopo poco piu’ di 48 ore sui Monti Nuba. Piu’ di un giorno intero diversi voli per entrarci, poco meno di un giorno per uscire. Saltando da un aereo all’ altro, l’ultimo, un grande Antonov cargo, preso letteralmente di corsa, mentre coi motori gia’ al massimo iniziava a muoversi sulla pista di Kauda. Sono entrato dal portellone posteriore a scivolo ormai pronto a chiudersi, e gli amici Nuba sono riusciti a buttarmi dentro il bagaglio prima che si chiudesse l’ultimo spiraglio.

Un viaggio segnato dalla presenza invasiva delle capre. Arrivando a Kauda su un aeroplanino con altri cinque passeggeri, il pilota ha tentato tre volte di atterrare, sempre ostacolato da un gregge di capre che non avevano nessuna intenzione di spostarsi, fino a che un pastorello e’ arrivato di corsa e le ha convinte a lasciarci via libera. Poi carne di capra a pranzo e a cena, per due giorni. Un capretto ieri sera si era pensosamente accomodato sul mio “letto”, non so quanto a lungo, ma per il tempo sufficiente da impregnarlo del suo odore e a costringermi a dormire legandomi sul naso un fazzoletto impregnato di succo di limone. Poco comodo, ma l’alternativa sarebbe stata dormire all’ aperto, per terra. Altre capre ci guardavano beffarde stamattina, mentre cercavamo disperatamente di far ripartire l’ auto insabbiata per non arrivare in ritardo all’ aereo, che poi appunto abbiamo rischiato di perdere.

Nel viaggio di andata verso i Nuba ho fatto una sosta di qualche ora a Rumbek, in Sud Sudan. C’ero stato per la prima ed ultima volta nel luglio del ’97, accompagnando l’allora Amministratore Apostolico, mons. Mazzolari e l’ ambasciatore che gli USA avevano ritirato alcuni mesi prima da Khartoum. Era con me, in funzione di video-operatore, Andrew Awour, uno dei primi ragazzi di Koinonia a Nairobi. Andavamo a prendere visione di cio’ che era rimasto della citta’ a della missione cattolica, pochi mesi dopo che era stata conquistata dallo SPLA. Dall’aeroplanino, anche volando bassi, si vedevano pochissime tracce di presenza umana. Dopo l’atterraggio venni subito bloccato dal personale delle famigerata “polizia segreta” dello SPLA che mi informo’ di essere “un rischio per la sicurezza del sud Sudan” e mi obbligo’, usando come argomento 4 Kalashnikov puntati, ad aspettare all’ ombra dell’ala dell’ aereo che gli altri tornassero dal giro di ispezione.. Gli altri, anche i due gorilla dell’ ambasciatore, preferirono fingere di non vedere e di non capire, per evitare incidenti. Solo Andrew ritorno’ sui suoi passi e si fermo’ a protestare, e voleva restare con me, ma lo convinsi ad andare a fare il video. Andrew mori nel novembre dello stesso anno, in un banale incidente stradale. Una perdita che un quel momento avrebbe potuto essere fatale per Koinonia, tanto centrale la sue figura are diventata per l’allora piccolissima comunita’. Oggi per gli standard sudanesi, Rumbek e’ una cittadina: qualche strada, qualche casa in muratura, molte capanne in fango e paglia, molte ONG e molti servizi disponibili alla gente, scuole e ospedali. Siamo al colmo della stagione secca, e c’era un caldo feroce, certamente sopra i quaranta, e meno sopportabile del caldo dei Monti Nuba, dove l’ aria e’ sempre mossa.

Ho fatto questa escursione sui Monti Nuba per riportare con me a Nairobi un maestro bisognoso di cure mediche non disponibili sul luogo, e ne ho approfittato per rimpinguare le casse dei progetti con un po’ di fondi in contanti e visitare le sue scuole elementari e l’ istituto per la preparazione dei maestri. I progetti funzionano bene, insegnanti e alunni sono impegnati al massimo, ma la finanze vacillano. Con la pace in Sudan i Nuba sono sono neanche piu’ nella lista non dico delle emergenze, ma neanche in quella delle necessita’ croniche. Cosi la cooperazione internazionale se ne va. Se non troviamo qualche modo nuovo per sostenere queste scuole non so come faremo a continuare.

E’ stata un’ opportunita’ anche per incontrare i nostri “maestri missionari”. Quasi esattamente due anni fa durante una delle mie visite ai Nuba mi ero trovato ad avere tre circostanze favorevoli: la prima era che era la stagione secca e si poteva viaggiare abbastanza discretamente, poi avevo tre giorni liberi e avevo anche a disposizione un’ auto in condizioni decenti. Decisi di tentare il viaggio da Kauda a Kau, il mitico villaggio Nuba dove la Leni Riefenstahl aveva scattato a meta’ degli anni settanta delle foto che sono diventate iconiche per chi si interessa di fotografia: i lottatori Nuba, i loro volti dipinti con disegni geometrici di incredibile bellezza fantasia, le danze delle ragazze. A Kauda due Nuba erano disposti ad accompagnarmi e uno diceva di sapere la strada. Stimavano che ci sarebbero volute delle 5 alle sei ore d’auto. Cosi una mattina alle 7 siamo pariti in cerca della mitica Kau, col il pick-up Toyota 4×4 con bidone con 60 litri di diesel, tende e qualcosa da mangiare. Cammina e cammina, attraverso paesaggi da mille e una notte, anzi guida e guida, e dopo cinque, sei, sette ore comincio a pensare che la mia guida non sappia dove siamo. Ma lui mi assicura del contrario, anche perché, facendosi la notte vicina sembrava la cosa piu’ ragionevole da farsi. La pista dopo qualche ora era scomparsa, e mantenevamo una media di non piu’ di 20 kilometri all’ ora, attraversando lentamente boschi, savane, wadi (o letti di fiumi temporanei che nella stagione secca non hanno acqua) sempre col pericolo di insabbiarci e non muoverci piu’. Devo usare tutte le mie risorse e esperienze di guida in Africa. Dopo un falso allarme alle otto di sera, una sera senza luna, finalmente alle nove e mezza siamo arrivati. Meno male perche’ il diesel sta per finire. La pista si fermava in mezzo ad alcune capanne. E dalle capanne uscirono delle persone vestite con i lungi gellaba arabi. Scendiamo per chiedere dove siamo, ma le cose non sono cosi semplici. Siamo in Africa, nell’ Africa tradizionale, dove prima di scambiarsi informazioni e’ importante conoscersi. Ci confermano che siamo a Kau, ma dobbiamo sederci, aspettare che ci portino acqua da bere e kisra con carne da mangiare. Poi ci chiedono la ragione del nostro viaggio. Spiego che vorremmo stare un giorno con loro, e incontrare il loro “mek”, il re. Assentono, offrono di accompagnarci dal mek., che , dicono, e’ mezz’ora di distanza se si va a piedi. Faccio salire altri due accompagnatori sull’ auto, ma i nostri due che vanno a sedersi nel cassone scoprono con allarme che probabilmente durante l’ ultima fase del viaggio quando eravamo tutti stanchissimi e non capivamo piu’ niente, il box del diesel sie era rovesciato. Eravamo senza diesel a circa 250 km da Kau.

E’ arrivato l’ aereo. Chiudo e fra poche ore a Nairobi inseriro’ questo testo nel blog. Continuero’ la storia domani.

Speriamo che Lamek si Sbagli

Stamattina ero a Kibera. Qui, dall’ altro ieri, dopo tantissimi ostacoli, siamo operativi con un piccolo centro di fisioterapia per bambini sotto i 16 anni. Il centro si chiama Paolo’s Home, la Casa di Paolo, come voluto da un gruppo di Fabriano in ricordo di un loro caro amico scomparso due anni fa. Non ho mai conosciuto Paolo, ma mi hanno raccontato della sua forza interiore, della sua capacita’ di incoraggiare gli altri, della sua fede. Avremo ancora bisogno del suo aiuto. Guardando i bambini e i genitori presenti stamattina , erano evidenti le gravi difficolta’ in cui vivono e la grande speranza che hanno in noi, e mi rendevo conto che questa e’ la piu’ grande responsabilita’ che ci siamo presi come Koinonia. Sarebbe imperdonabile non essere all’altezza della fiducia che hanno in noi.
Oggi eravamo ancora in fase di registrazione e di una prima visita da parte di Janet, la fisioterapista. Avevamo cominciato gia’ in agosto a fare un sopraluogo ed avevamo gia’ una lista di 30 bambini bisognosi di fisioterapia. Ma adesso, prima di chiudere il terzo giorno, ne abbiamo gia’ registrati oltre sessanta. Molti di loro hanno serie difficolta’ di e non possono camminare per piu’ di pochi metri, e sono stati portati in braccio dai loro genitori, perche’ nei vicoli di Kibera – stretti, ripidi, sconnessi, e pieni di fango dopo pochi minuti di pioggia – anche se qualcuno potesse comperarsi una sedia a rotelle, sarebbe comunque impossibile muoversi. Prima di essere visitati da Janet vengono registrati al computer da Caleb, un coraggioso ragazzo di Kibera che si muove a fatica sostenuto da due stampelle, ma che e’ riuscito a fare un diploma come animatore di comunita’ ed ha fondato gia’ 4 anni fa un’ associazione di handicappati.

Allego qui sotto una foto delle mamme coi figli in attesa della visita.

La Casa di Paolo e’ adiacente al nostro piu’ antico progetto a Kibera, il Ndugu Mdogo Drop In Centre, il centro “Piccolo Fratello” di prima accoglienza per bambini di strada. Anche li’ l’ attivita’ e’ ripresa in pieno. Nonostante abbiamo deciso di dare piu’ rilevanza al lavoro in strada, quello di primo contatto coi bambini, per poi consigliarli ed aiutarli ad uscire dalla situazione in cui si trovano possibilmente senza essere osptitai in un’ apposita casa, , a Ndugu Mdogo c’erano una dozzina di bambini. Coperti non con vestiti ma con stracci sporchi, la fame cronica dipinta in faccia, ma sempre pronti a sorridere, a stare insieme, a rispondere con apertura ad un contatto umano sincero ad affettuoso.

Ad arricchire la piazzetta in cui siamo presenti, alcune settimane fa sono venuti in affitto in una casetta a pochimetri di distanza, i ragazzi di Kibera Youth Initiative (Iniziativa dei Giovani di Kibera), un’ associazione spontanea e profondamente radicata in Kibera, fatta tutti di giovani che vogliono impegnarsi per riscattarsi e riscattare il loro quartiere. Uno dei loro leaders, Lamek, e’ venuto a salutarmi e quando gli ho chiesto cosa ne pensa dell’accordo per un governo di Grande Coalizione firmato da Kibaki e Odinga, mi ha risposto, molto disincantato. /“Vedi, i nostri leaders si sono messi d’ accordo. Cosi adesso in Parlamento non ci sara’ piu’ un’opposizione che possa contrastare la corruzione e le malefatte del governo. Sono tutti d’ accordo a sfruttarci meglio. Conoscendo i nostri uomini politici non mi meraviglierei se adesso l’ opposizione, arrivata a condividere il potere, si accontentasse di partecipare al saccheggio delle casse governative. Del resto non e’ questo che volevano? Non ti ricordi che solo poche mesi fa i parlamentari del governo e dell’ opposizione sono stati unanimi nell’alzarsi i salari a livelli scandalosi? Ogni parlamentare keniano prende adesso 13 mila dollari al mese. Cosi, dopo due mesi di scontri, mille morti, mezzo milione di sfollati, ci ritroviamo esattamente dove eravamo due mesi fa. Forse peggio.”/

Spero che Lamek si sbagli.

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Chiamiamolo Otieno

“Ma e’ vera la storia del ragazzino che hai raccontato a Le Invasioni Barbariche?” mi hanno chiesto diversi amici.

Certo. E’ una storia vera.

Circa un mese fa, quando la tensione era ancora molto alta in tutta Nairobi, sono tornato a Kivuli, dove vivo, verso le sette di sera. Stavo entrando in casa, sperando finalmente di potermi rilassare per una mezz’ ora prima di cena, quando mi si e’ avvicinato uno dei ragazzini arrivati di recente, chiamiamolo Otieno, chiedendomi di potermi parlare. Stavo per dirgli di tornare un altro momento, ma poi, sospirando ed aspettandomi di sentirmi raccontare qualche semplice incomprensione fra bambini, l’ ho fatto sedere su uno degli sgabelli ho sempre a disposizione fuori dalla porta e mi gli sono messo accanto, chiedendogli di dirmi velocemente che problema avesse.

“Vedi padre, io con questa vita non ce la faccio più”, ha esordito. Mi son subito messo ad ascoltarlo con più attenzione e mi son venute in mente mille possibilità’. Non riesce ad inserirsi a Kivuli perché non e’ accettato degli altri o perché dopo la vita di strada non riesce ad adattarsi alle pur minime regole che chiediamo ai bambini? O a scuola che le cose non vanno bene, si sente ridicolo ad andare in una classe un cui tutti gli altri bambini sono di almeno due anni minori di lui? O, peggio, mi e’ venuto in mente il ragazzo di vent’anni che a Mthunzi, la nostra casa a Lusaka, lo scorso settembre aveva tentato di suicidarsi perché in un momento di depressione, dopo essere riprecipitato nell’ uso dell’erba, gli sembrava che la vita non avesse più significato?. Non ho detto niente e son stato ad aspettare. “No, cosi proprio non ce la faccio” ha ripetuto Otieno serio serio e scuotendo la testa.

Cominciavo a preoccuparmi seriamente, e gli ho chiesto di spiegarmi bene cosa non andavava. E lui, con un’ espressione preoccupata come se si aspettasse un rimprovero, “Vedi padre, questa vita non fa per me. Tu mi devi insegnare come si arriva alla vita vera. Io voglio la vita vera, quella di cui parla Gesù’. Voglio essere battezzato e vivere da cristiano”.

Ho tirato un sospiro di sollievo e gli ho detto che certamente potrà’ essere battezzato, facendo il cammino di catecumeno con il gruppo di coetanei nella parrocchia vicina a Kivuli. “Davvero posso diventare cristiano, essere battezzato? Io che non ho famiglia e che ho vissuto in strada per cinque anni?” Il volto era ormai raggiante.

Poi Otieno ha insistito per raccontarmi la sua vita. Come, quando aveva sei anni e viveva in un villaggio sperduto vicino al lago Vittoria, avesse insistito col papa’ perché voleva andare a scuola e finalmente il papa’ aveva ceduto e una mattina erano partiti insieme per andare in autobus a Kisumu dove avrebbe potuto vivere con dei parenti ad andare a scuola. Ma l’autobus era uscito di strada e rotolato giu’ per una scarpata, e quattro persone erano morte, tra le quali suo papa’. Aveva aspettato i soccorsi per sei ore, vicino al cadavere del papa’. Successivamente la mamma era riuscita lo stesso a fargli frequentare la scuola per tre anni, ma poi anche la mamma era morta di una malattia misteriosa, e allora era venuto da solo a Nairobi, nascondendosi in un camion, fra i sacchi di pesce secco. Dopo giorni di vagabondaggio e di fame, aveva trovato a Kibera un uomo anziano originario del suo villaggio, che viveva da solo e lo aveva preso in casa. Andava a lavorare con lui al mercatino della frutta e verdura, ma dopo qualche mese si era fatto degli amici in strada, ed era andato a vivere con la loro banda. Poi il desiderio prepotente della scuola lo aveva fatto cedere alla pressione di Jack che per mesi lo aveva conosciuto e cercato di convincere di venire a Kivuli. “Jack mi diceva che io avrei potuto farcela, avevo perso solo due o tre anni di scuola, e quindi ho chiesto che mi portasse a Kivuli”.

Dopo aver sentito la storia di Otieno, volevo quasi subito scriverla nel blog e fargli una foto da allegare. Ma poi avevo pensato che non avrei comunque potuto allegare la foto perché’ solo per catturare la luminosità’ dei suoi occhi ci sarebbero voluti qualche centinaio di megabites, e poi perché’ volevo proteggere la sua privacy. Invece quella sera durante l’ intevista della Bignardi, il volto di Otieno mi e’ tornato in mente con prepotenza ed ho pensato raccontare questo episiodio avrebbe potuto aiutare qualche ascoltatore a riflettere.

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