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February 13th, 2008:

Vent’ Anni

Ho appena finito un incontro di due giorni organizzato dal nostro gruppo comboniano del Kenya, al quale hanno potuto partecipare una ventina di confratelli. L’ obiettivo era di analizzare la situazione politica e sociale in cui ci troviamo, identificare le principali cause dell’ esplosione di violenza e incominciare ad abbozzare una risposta cristiana a quanto sta succedendo. E’ stato uno sforzo comune con grande partecipazione e qualche nuova iniziativa dovrebbe partire presto. Come ho sempre pensato noi come chiesa, comunita’ di comunita’ cristiane, siamo molto lenti a reagire alle situazione, ma siamo piu’ capaci e determinati quando si tratta di fare formazione umana e cristiana sui tempi lunghi. E qui i stempi saranno lunghi.

Ieri Kofi Annan ha incontrato il Parlamento ed ha aperto delle prospettive molto positive, di un governo di transizione per arrivare a nuove elezioni entro due anni. Ma e’ stato subito accusato dal gruppo di negoziatori di Kibaki di non aver rappresentato cio’ che invece era stato detto negli incontri. Oggi tutti i negoziatori si sono trasferiti in una localita’ segreta per essere lontani dalla pressione dei mass media. Intanto la calma sta ritornando quasi dappertutto. E la gente incomincia a riflettere incredula sulla gravita’ degli avvenimenti di questo mese e mezzo, e sui drammi umani che stanno venendo alla luce.

Domani, San “Valentino, saranno esattamente  20 anni dal mio arrivo in Kenya. Sara’ una buona scusa per fare una modesta festa coi bambini di Kivuli. Modesta non solo perche’ siamo in quaresima, ma anche perche’ e’ il nostro stile. Dopo la solita cena di githeri – un bel minestrone di chicchi di granoturco, fagioli e patate – biscotti e succo di frutta a volonta’.

La Misna (www.misna.org) ha intanto pubblicato un’ ottima traduzione dell’ articolo che vi avevo proposto qualche giorno fa in inglese. Ringrazio gli amici della Misna e lo riproduco qui sotto come da loro traduzione per chi non conoscesse la Misna.

 

Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono

 
Non è possibile capire davvero quel che sta accadendo in Kenya e in Africa senza riflettere sulla cangiante natura dei movimenti di opposizione e le differenze tra un movimento spinto dal potere del popolo, ovvero una rivoluzione democratica, e una pletora di movimenti che consolidano le istituzioni democratiche per gli scopi del capitale internazionale volando sotto il radar della democrazia. Parlerò qui avanti soprattutto di Raila Odinga e dell’Orange democratic movement(Odm) ma potrei in realtà star parlando di Mwai Kibaki e del Partito per l’unità nazionale (Pnu). E’ solo perché l’Odm ha attivamente corteggiato l’immagine di ‘movimento di potere del popolo’, impegnato in una rivoluzione democratica, che richiamo la vostra attenzione su questo partito. Amilcar Cabral (padre dell’indipendenza della Guinea Bissau, ndr) una volta disse: “non dire bugie e non rivendicare vittorie piccole”. È con questo spirito che scrivo questo articolo.

COMINCIAMO DALLA QUESTIONE ETNICA. Così come non stupisce incontrare un americano che nega l’esistenza del razzismo nella politica americana, allo steso modo non ci si dovrebbe stupire se un africano nega che la politica africana è profondamente radicata nell’etnocentrismo. Il razzismo è un prodotto storico che ha una sua funzione, è così il ‘tribalismo’. Come gli esponenti politici dell’Occidente strumentalizzano la razza e la paura per scopi politici, così fanno anche quelli africani. L’etnocentrismo può essere una forza benigna o estremamente pericolosa, secondo il direttore d’orchestra. L’etnocrazia, proprio come qualsiasi struttura di potere razzista, esiste nella misura in cui è in grado di nascondere agli occhi delle vittime e degli attivisti le cause profonde dello sfruttamento economico, politico e sociale. È un meccanismo per attirare l’attenzione altrove. Non dimentichiamo anche l’avvertimento di Kwame Ture (al secolo Stokely Carmichael, uno dei capi del movimento per il black power negli Stati Uniti e poi panafricano, ndr) di non confondere successi individuali con vittorie collettive. La maggioranza dei kenyani – che siano di etnia Luo, Kikuyu, Luhya o altre – sono poveri. Il 60% dei kenyani vive con meno di due dollari al giorno, e ciò riguarda tutte le etnie. L’elite kykuyu prospera a spese dei poveri kykuyu; e lo stesso avviene per gli altri. I poveri di tutti i gruppi etnici hanno molto più in comune di quanto non abbiamo in comune i poveri e i ricchi della stessa etnia. Razzismo, nazionalismo ed etnocrazia tutte esigono che i poveri muoiano per difendere le strutture sociali che li mantengono nella povertà. Non sorprende che sia i morti sia chi ha ucciso in Kenya nelle scorse settimane fossero, da entrambe le parti, poveri. E tuttavia si uccidono seguendo criteri etnici, non di classe. I partiti politici occidentali hanno espresso posizioni diverse e contraddittorie lungo la loro storia, così pure è accaduto per i partiti africani. Nelle dittature degli Anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso, le opposizioni politiche erano “i buoni”. Ma gli analisti politici internazionali progressisti ancora usano quel modello di lettura, che oggi ci impedisce di vedere le palesi contraddizioni davanti noi. Un esperto ben informato sulla complessa trasformazione della politica africana negli ultimi due decenni non può partire più dall’assunto che l’opposizione politica sia automaticamente rappresentativa di una forza popolare. Prendiamo ad esempio il caso dello Zimbabwe. Il Movimento per il cambiamento democratico, all’opposizione, è un partito neoliberista. Definirlo rivoluzionario o antimperialista sarebbe un errore. In Kenya, sia il governo al potere sia l’opposizione vedono spostarsi dall’uno all’altra i reciproci parlamentari con il cambiare delle rispettive posizioni politiche, con lo scopo di spartirsi le poltrone. William Ruto, uno dei capi del Odm è stato in passato il tesoriere dell’ala giovanile del partito Kanu, un organizzazione di teppisti utili alla politica creata dall’ex dittatore Moi, il quale ora è dalla parte di Kibaki. E faccio notare che il recente attacco alla chiesa in cui sono state uccise 50 persone è avvenuto a Eldoret, bacino elettorale di William Ruto, di cui è stato per molti anni il deputato eletto in parlamento.

Non tutti i partiti d’opposizione sono quindi antimperialisti o contrari all’intenzione del capitale globale di compattare il mondo. IN tempi in cui le nazioni ricche e le loro elite diventano sempre più ricche e le nazioni povere e i loro poveri diventano sempre più miseri, alcuni partiti d’opposizione scelgono di stare dalla parte del capitalismo globale. L’Odm include alcune delle persone più ricche del paese. Ad esempio la famiglia Odinga è proprietaria della fabbrica di melassa Spectre International e ha legami con una multinazionale petrolifera e mineraria per l’estrazione dei diamanti. Sulla stampa internazionale Raila è definito come un “brillante milionario”, il che non è del tutto falso. Ciò detto, è cruciale capire cosa significhi essere un movimento del popolo. Affinché una politica per il popolo sia davvero efficace, la solidarietà deve attraversare tutte le etnie. In altre parole, un movimento che tragga il suo potere dal popolo deve essere fondato sulla coscienza degli oppressi. Poiché non ha una base sviluppata in anni di lavoro con e per il popolo, l’Odm può solo sollevare il malcontento puntando sull’etnicità piuttosto che organizzare l’intero paese contro lo sfruttamento da parte delle elites. Come tutti i movimenti populisti, fa leva sulle peggiori paure della gente (quella di una dominazione kikuyu, per esempio) e le proietta sulla scena politica nazionale. Al contrario, un movimento che sia davvero per il potere popolare scarterebbe queste paure per mettere in evidenza come il potere e il benessere vengono iniquamente distribuiti. Poiché l’Odm non lo ha fatto, i suoi sostenitori hanno identificato i poveri kikuyu come nemici. Un movimento per il potere popolare avrebbe diretto le sue energie e la sua rabbia contro lo stato, non contro un’altra etnia. Un movimento per il popolo dichiarerebbe la sua solidarietà con gli emarginati di tutto il mondo. È terzomondista nella sua visione. Un movimento per il popolo, poiché la sua visione nasce organicamente dalla sua lotta e dal suo impegno al fianco del popolo, presenta una posizione contro un sistema economico internazionale di sfruttamento poiché i suoi membri sono resi più poveri da quei meccanismi. L’Odm non può essere definito come panafricano e terzomondista, piuttosto ha una coscienza populista. Inoltre, il guscio – la facciata – di movimento del popolo può essere usata dall’elite nazionale per conquistare il potere ma al servizio del capitale internazionale. Piuttosto che usare un termine come populista o popolare per riferirsi all’ Odm, sembra utile prendere in prestito una definizione dell’International Republican Institute (Iri, organizzazione fondata dall’ex-presidente Ronald Regan per promuovere “programmi di democratizzazione” nel mondo, ndr): “consolidamento democratico” con riferimento a una tecnica utilizzata dall’Iri nella Rivoluzione arancione in Ucraina e nella rivolta haitiana che portò alla deposizione del presidente Aristide. Il “consolidamento democratico” si traduce nel mettere insieme le organizzazioni della società civile (religiose, universitarie, ong locali, associazioni di donne, etc) e unire le diverse fazioni dell’opposizione in unica forza elettorale. Se i missionari aprirono la strada al colonialismo, i gruppi evangelici delle democrazie occidentali come l’Iri aprono oggi la strada alla politica estera degli Stati Uniti. L’unico vero scopo del “consolidamento democratico” è rimuovere i governi al potere. Non c’è nessuna sottostante e coerente ideologia collegabile al popolo, nessun interesse a dare potere al popolo o a restituire l’economia e le istituzioni alla sovranità popolare. Anzichè sviluppare vere radici con il popolo, in modo da diventare una sua estensione una volta al potere, l’Odm ha scelto il facile percorso del “consolidamento democratico” indicato dal modello Iri. Dobbiamo urgentemente distinguere tra movimenti per il potere popolare (come quelli che vediamo in America latina), movimenti populisti e movimenti d’opposizione neoliberali the consolidano le istituzioni democratiche a beneficio del capitale internazionale. I movimenti per il potere popolare sono una quinta forza solitamente in opposizione alle quattro esistenti: i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario e militare.

Quando prendono il potere con mezzi democratici, i movimenti per il popolo cercano di trasformare le altre quattro forze in strumenti della rivoluzione. Vengono varate leggi per la nazionalizzazione delle risorse o per la redistribuzione delle risorse e della terra. L’esercito viene trasformato da strumento di intimidazione a una forza di soccorso in caso di calamità naturali. In poche parole, un governo per il potere popolare mette il popolo al centro dello stato. Quando un movimento che ha agito per il “consolidamento democratico” prende il potere fa esattamente l’opposto e le strutture democratiche diventano uno strumento del capitale globale e della politica estera degli Stati Uniti. La Liberia, per esempio, dopo avere lavorato con l’Iri, è uno dei pochi paesi ad aver aperto le sue porte allo Us African command centre. E dobbiamo almeno riflettere sul fatto che nelle passate settimane l’Odm non si è impegnato nella fase finale di una rivoluzione popolare ma piuttosto nell’ultimo passaggio del consolidamento democratico neoliberale, usando le persone come una testa d’ariete contro lo stato. È quello che accade quando un partito neoliberale chiama milioni di persone a scendere in piazza con la speranza di paralizzare lo stato. Poiché il “consolidamento democratico” ha bisogno del flusso e riflusso dato dalla violenza dello stato e della protesta del popolo, Raila, interrogato dalla Bbc se avrebbe fatto appello alla calma, ha potuto cinicamente dichiarare: “Mi rifiuto di dare un anestetico ai kenyani così che possano essere stuprati”.

Nel caso ve lo chiedeste, lasciatemi in ogni caso dire che per i progressisti non è Kibaki la risposta. Prima delle elezioni, la Commissione kenyana per i diritti umani ha reso pubblico un rapporto in cui si accusa la polizia di quasi 500 uccisioni di giovani uomini, tutti da quartieri come Kibera e Mattare, baraccopoli in fermento. È il segnale che la crescita economica del 6% non arriva alla gente più in basso, neanche le briciole. Il che significa anche che la compravendita del voto (su entrambi i fronti politici) è quasi una certezza. Sufficienti dubbi sono stati espressi dalla commissione elettorale per un riconteggio delle preferenze, una ripetizione del voto, un governo di unità nazionale o altra idonea soluzione all’interno delle regole democratiche. Se vogliamo riconciliare il paese e avere giustizia, le voci progressiste dovrebbero chiedere un’inchiesta delle Nazioni Unite sulla pulizia etnica successiva alle elezioni avvenuta a dicembre e a gennaio a Eldoret e in altre aree. Dovrebbe esserci un’inchiesta dell’Onu anche su quel che accadde nel 1994 nella Rift valley dove centinaia di kikuyu vennero assassinati e migliaia furono costretti alla fuga durante il regime di Moi, come anche nel massacro di Wagalla nel 1984 (sempre durante il regime di Moi), in cui centinaia di keniani di etnia somala furono uccisi. Infine dovrebbe essere aperta un’inchiesta anche sulle morti, non collegate alle elezioni, dei 500 ragazzi, lo scorso anno. I progressisti dovrebbero chiedere che la crisi sia risolta all’interno delle strutture democratiche. Quando Bush vinse un’elezione che noi non abbiamo chiesto ad Al Gore di provare a rovesciare il governo con una rivoluzione arancione, non gli abbiamo chiesto di dividere il paese secondo direttrici razziali: neri contro bianchi, bianchi contro latinos; gli abbiamo chiesto di rimediare usando procedure pacifiche e democratiche. E per questa ragione gli Stati Uniti sono ancora in piedi, nonostante Bush. Sia Raila che Kibaki possono creare un governo d’unità; chiedere un riconteggio dei voti e anche nuove elezioni. Qualunque sia il modo con cui ci si arrivi deve essere uno che lasci il Kenya in piedi per le generazioni a venire.

Il mio appello è questo: “Non cerchiamo rivoluzionari dove non ne esistono”. La solidarietà internazionale dovrebbe essere con il popolo keniano e non con i singoli capi. Un’intera nazione è in gioco. La cosa migliore per il Kenya è che ora torni su una via pacifica governata da strutture democratiche tali da sopravvivere a Raila e a Kibaki. Questo renderà possibile un governo con il potere del popolo attraverso una rivoluzione democratica.

[Mukoma Wa Ngugi, autore dell’articolo tradotto dalla MISNA, è poeta, scrittore ed editorialista keniano e Coordinatore delle conferenze dell’organizzazione panafricana “Toward an Africa without Borders”; per le due parti precedenti dell’articolo vedi notiziario di stamani e di ieri sera.]

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