Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

February, 2008:

L’ Accordo

Finalmente ieri pomeriggio il Presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ha firmato un accordo con il leader dell’ opposizione Raila Odinga che dovrebbe metter fine alla situazione di tensione e di violenza che ha prevalso nel Paese negli ultimi due mesi.


I punti chiave dell’accordo sono i seguenti:

Verrà creato il posto di primo ministro, che avrà l’ autorità di co-ordinare s supervisionare l’ esecuzione delle politiche governative.

Il primo ministro sarà un parlamentare eletto, e sarà scelto dal parlamento fra i membri del partito, o dalla coalizione di partiti, che ha il più alto numero di parlamentari. Sembra scontato che questo posto andrà a Raila Odinga.

Ci saranno anche due vice primo ministro, ciascuno nominato dalle due parti della coalizione

Il primo ministro e i suoi vice potranno essere rimossi solo con un voto di maggioranza semplice del parlamento

Il governo e’ formato dal presidente, vice-presidente, primo ministro, i due vice-primo ministro e gli altri ministri.

L’’ eventuale rimozione di un ministra sarà soggetta a consultazione e accordo scritto.

La composizione del governo di coalizione terra’ conto di un accurato bilanciamento dei portafogli e rifletterà la relativa rappresentanza parlamentare.

La coalizione si dissolverà con la dissoluzione del presente parlamento, o se i partiti lo stipulano per iscritto, o se una delle due parti si ritira dalla coalizione. Ma c’ e’ l’impegno di entrambe le parti di portare a termine la coalizione, fino a dicembre 2012.

L’ accordo e’ stato preso dalla gente con grande gioa, ma anche con una venatura di rabbia. Ieri sera mentre guardavo il telegionale, con abbondanza di sorrisi radiosi e un clima di festa, i ragazzi della pallacanestro e del calcio tiravano dei sospiri di sollievo ma commentavano anche “Loro sorridono perché’ non hanno avuto morti e sfollati in famiglia. Non potevano accordarsi subito e risparmiarci due mesi di tragedie?”

L’accordo era ormai inevitabile e mi sembra un passo positivo. Le posizioni sono molto bilanciate e potrebbe scaturirne l’ effetto di un controllo più’ efficace della corruzione, evitando almeno che si sviluppino altri clamorosi casi. E’ anche positivo che gli ultimi due mesi abbiano portato alla ribalta il problema delle distribuzione della terra e degli slum. La gente adesso si aspetta che questo governo che verrà si impegni seriamente su questi due sfide, e vuole vedere i fatti.

Il pericolo e’ che si crei un clima di falso accordo e di compiacenza, e che si metta nel cassetto l’ idea di perseguire i responsabili degli atti criminali che hanno visto il massacro oltre millecinquecento persone e la creazione di almeno un mezzo milione di sfollati. Adesso giustizia deve essere fatta. L’ accordo non può’ essere un’amnistia per chi ha ucciso, bruciato persone vive all’ interno delle loro case o delle chiese, distrutto proprietà’, e incitato a tutto questo. E parecchie di queste persone siedono in parlamento.

Sperando nella Pace

Sono rientrato a Nairobi dopo cinque giorni di assenza in Italia, dove sono stato intervistato a Le Invasioni Barbariche sulla situazione in Kenya e sull’ impegno di Koinonia ed Amani per i bambini di strada. Un’ esperienza positiva, sopratutto rispetto ad altri poverissimi “talk shows” a cui mi era, disgraziatamente, capitato di partecipare in passato. Infatti mi ero ripromesso di non accettare piu’ inviti di questo tipo, ma le insistenze di Arnoldo hanno prevalso, ed e’ stato bene cosi.

A Nairobi la situazione non si e’ sbloccata, anzi il governo si e’ irrigidito su posizioni che paiono irragionevoli e che non tengono in considerazione il bene comune. L’ opposizione sta organizzando una giornata di proteste di massa per domani, e il timore e’ che torni a riesplodere la violenza.

Stiamo rimettendo in ordine – sia per la grafica che per i contenuti – i siti internet delle varie attività’ gestite da Koinonia, in gran parte elencati qui sulla sinistra. Provate a visitare Africa Peace Point e Koinonia Kenya, e se avete critiche, osservazioni e suggerimenti fatemi sapere.

Segnalo anche che alcuni amici in Italia hanno incominciato a lavorare per la pace in Kenya e pubblicano ogni due settimane una newsletter di informazioni. Se volete riceverla gratuitamente potete chiedere a peaceculture@gmail.com che vi mandino la Peace Kenya! newsletter. E’ disponibile sia in italiano che in inglese

America e Cina

I negoziati fra governo e opposizione continuano, e Kofi Annan fa balenare speranze di accordi a breve termine, entro una settimana.

Intanto si vengono a sapere particolari che sempre piu’ inficiano i risultati delle elezioni, probabilemnte non solo di quelle presidenziali ma anche di quelle parlamentari.

Un amico che e’ professore di diritto internazionale ha avuto la pessima idea di candidarsi al parlamento per il PNU, il partito di Kibaki, in un collegio elettorale vicino al lago Vittoria, una zona tutta pro ODM, dove e’ nato.. Ieri mi raccantava le sue disavventure. Tre giorni prima delle elezioni, sono arrivati in zona dei personaggi della polizia amministrativa, che secondo la gente, avevano il compito di fare dei brogli a favore di Kibaki. Lui e gli altri candidati del PNU, lui dice, non sapevano niente di questa cosa e cosi’ quando la gente ha incominciato a cacciarli, letteralmente, e ne hanno uccisi tre, si sono trovati in grosso pasticcio. Al giorno delle elezioni e’ andato a votare insieme alla mamma molto anziana, che non sa leggere. Al seggio elettorale la persona incaricata di aiutare gli analfabeti ha preso la scheda ad ha chiesto alla mamma “Per chi vuole votare?” Lei ha detto PNU. L’ incaricato invece ha fatto la croce sul simbolo dell’ ODM, sempre fissando negli occhi il figlio, come a voler dire “prova a protestare se ne hai coraggio”. Questo e’ uno dei seggi in cui l’ ODM ha avuto il 93% per cento dei voti. Due giorni dopo i militanti ODM hanno circondato la sua casa rurale, dove stava con la mamma ed altri parenti, e li hanno fatti uscire, poi hanno incendiato la casa e nel cortile hanno sepellito una foto di Kibaki. La mamma e’ morta poche ore dopo, sconvolta da quanto aveva visto. Lui e’ rimasto nascosto in casa di amici per due settimane, e poi e’ riuscito ad arrivare a Nairobi dopo un viaggio di sei giorni, che mi ha descritto come l’ attroversamento di un girone infernale.

Viene subito alle labbra una domanda: ma allora se le cose sono andati cosi e se, come ormai e’ evidente, nelle rispettive roccaforti i due partiti che si scontravano hanno forzato la gente a votare per i propri candidati, come mai gli osservatori internazionali non hanno visto niente ad hanno inizalmente detto che le elezioni si erano svolte in un perfetto clima democratico? Non hanno visto le intimidazioni? Come mai si sono accorti che il conto dei voti e’ stato fasullo solo dopo che i risultati sono stati annunciati? Questi osservatori servono ancora a qualcosa?

Il mio testo che segue e’ stato utilizzato oggi come editoriale di Agora’, l’inserto domenicale del quotidiano Avvenire.

 

MA È L’OCCIDENTE CHE CONTINUA A SOFFIARE SUL FUOCO

di Kizito Renato Sesana

Èdifficile scrivere di Africa.

Sempre più difficile.

Soprattutto se si ama questo continente e la sua gente, e vi si è spesa quasi tutta la propria vita da adulti, com’è il mio caso. Ho cominciato a scrivere di Africa nel 1970, e da allora ho visto troppe genuine speranze frantumarsi sugli scogli del cattivo governo e delle interferenze esterne. Si firmano trattati i pace, ma scoppiano subito altre guerre. I trattati diventano carta straccia nel giro di poco tempo, e i conflitti armati si trascinano per anni, come piaghe purulente. Come continuare a dire parole di speranza quando si parla dell’Africa?
Gli avvenimenti recenti del Kenya sono paradigmatici. Nel 2002 i keniani riescono a democraticamente togliere il potere dopo 24 anni! – a Daniel Arap Moi, e i primi passi del nuovo governo sono incoraggianti. Ma presto favoritismi e corruzione tornano a prevalere, il governo si spacca, l’ opposizione si organizza in quello che assomiglia a un movimento popolare. A fine 2007 la campagna elettorale divide il paese lungo linee etniche, e subito dopo le elezioni, ferocemente contestate, si scatena sopratutto nelle Rift Valley una violenza di una brutalità mai vista. In poche settimane quello che era un paese modello per sviluppo economico e stabilità politica, il perno intorno a cui ruota la sopravvivenza di diversi altri paesi dell’Est e Centro Africa, rischia di precipitare nel caos.
Sbaglia chi parla di nuovo Ruanda. Il contesto è troppo diverso. Certo, ci sono ingiustizie storiche, una maldistribuzione o addirittura non-distribuzione delle ricchezze del Paese che hanno creato una più che giustificabile voglia di partecipare al benessere, un sordo e profondo risentimento nella masse dei disperati ammassati nelle baraccopoli come Kibera: ciononostante il Kenya avrebbe potuto superare questi problemi con i suoi tempi e con le sue dinamiche interne. Senza violenza. Sono state le pesanti interferenze esterne che hanno reso possibile l’ esplodere della violenza. Ciò che è avvenuto in Kenya va visto nel contesto più vasto di una nuova corsa all’Africa, alle sue ricchezze. In sintesi, fino pochi anni fa la competizione era fra Usa e Francia, ed era giocata in sordina, con toni da finti gentiluomini. Adesso la Francia è rimasta indietro e la Cina sta emergendo come una competitrice. L’ evidente supporto logistico e massmediatico che Usa e Gran Bretagna hanno dato all’opposizione – esaltandone gli aspetti positivi e tacendone le gravi pecche – è stato senz’ altro motivato anche dal fatto che Kibaki ha incominciato a guardare a Oriente: per ragioni puramente commerciali, non ideologiche. Le perdita per tante compagnie occidentali la perdita di contratti estrememnte lucrosi, come quello della forniture per le auto al governo e polizia del Kenya, è una delle ragioni di questo voltafaccia.
Dall’inizio degli anni ’90 si verifica tutta una serie di insipienti interventi occidentali che col pretesto di sostenere la democratizzazione hanno causato danni enormi: l’intervento armato in Somalia, il sostegno dato a Mobutu prima e a Kabila poi in Congo, il contrabbandare l’ugandese Museweni o il sudanese John Garang, o l’etiope Meles Zenawi, come la soluzione ai problemi dei loro paesi, solo per capire più tardi di aver aperto la strada a nuovi dittatori. Ma la responsabilità di questi disastri avvenuti o in fieri, per la maggioranza dei mass media internazionali, è sempre e solo dell’ Africa e degli africani che sono immaturi, violenti e tribalisti.
La Chiesa africana in questo contesto tormentato fa fatica a trovare una proprio identità e una propria strada. Le voci che richiamano alle esigenze del Vangelo sono ancora troppo timide. Il secondo Sinodo Africano, previsto per l’ anno prossimo, ha avuto dal Papa il compito di riflettere sul tema «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, delle giustizia e della pace». Niente di piu’ urgente e rilevante.

 

Vent’ Anni

Ho appena finito un incontro di due giorni organizzato dal nostro gruppo comboniano del Kenya, al quale hanno potuto partecipare una ventina di confratelli. L’ obiettivo era di analizzare la situazione politica e sociale in cui ci troviamo, identificare le principali cause dell’ esplosione di violenza e incominciare ad abbozzare una risposta cristiana a quanto sta succedendo. E’ stato uno sforzo comune con grande partecipazione e qualche nuova iniziativa dovrebbe partire presto. Come ho sempre pensato noi come chiesa, comunita’ di comunita’ cristiane, siamo molto lenti a reagire alle situazione, ma siamo piu’ capaci e determinati quando si tratta di fare formazione umana e cristiana sui tempi lunghi. E qui i stempi saranno lunghi.

Ieri Kofi Annan ha incontrato il Parlamento ed ha aperto delle prospettive molto positive, di un governo di transizione per arrivare a nuove elezioni entro due anni. Ma e’ stato subito accusato dal gruppo di negoziatori di Kibaki di non aver rappresentato cio’ che invece era stato detto negli incontri. Oggi tutti i negoziatori si sono trasferiti in una localita’ segreta per essere lontani dalla pressione dei mass media. Intanto la calma sta ritornando quasi dappertutto. E la gente incomincia a riflettere incredula sulla gravita’ degli avvenimenti di questo mese e mezzo, e sui drammi umani che stanno venendo alla luce.

Domani, San “Valentino, saranno esattamente  20 anni dal mio arrivo in Kenya. Sara’ una buona scusa per fare una modesta festa coi bambini di Kivuli. Modesta non solo perche’ siamo in quaresima, ma anche perche’ e’ il nostro stile. Dopo la solita cena di githeri – un bel minestrone di chicchi di granoturco, fagioli e patate – biscotti e succo di frutta a volonta’.

La Misna (www.misna.org) ha intanto pubblicato un’ ottima traduzione dell’ articolo che vi avevo proposto qualche giorno fa in inglese. Ringrazio gli amici della Misna e lo riproduco qui sotto come da loro traduzione per chi non conoscesse la Misna.

 

Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono

 
Non è possibile capire davvero quel che sta accadendo in Kenya e in Africa senza riflettere sulla cangiante natura dei movimenti di opposizione e le differenze tra un movimento spinto dal potere del popolo, ovvero una rivoluzione democratica, e una pletora di movimenti che consolidano le istituzioni democratiche per gli scopi del capitale internazionale volando sotto il radar della democrazia. Parlerò qui avanti soprattutto di Raila Odinga e dell’Orange democratic movement(Odm) ma potrei in realtà star parlando di Mwai Kibaki e del Partito per l’unità nazionale (Pnu). E’ solo perché l’Odm ha attivamente corteggiato l’immagine di ‘movimento di potere del popolo’, impegnato in una rivoluzione democratica, che richiamo la vostra attenzione su questo partito. Amilcar Cabral (padre dell’indipendenza della Guinea Bissau, ndr) una volta disse: “non dire bugie e non rivendicare vittorie piccole”. È con questo spirito che scrivo questo articolo.

COMINCIAMO DALLA QUESTIONE ETNICA. Così come non stupisce incontrare un americano che nega l’esistenza del razzismo nella politica americana, allo steso modo non ci si dovrebbe stupire se un africano nega che la politica africana è profondamente radicata nell’etnocentrismo. Il razzismo è un prodotto storico che ha una sua funzione, è così il ‘tribalismo’. Come gli esponenti politici dell’Occidente strumentalizzano la razza e la paura per scopi politici, così fanno anche quelli africani. L’etnocentrismo può essere una forza benigna o estremamente pericolosa, secondo il direttore d’orchestra. L’etnocrazia, proprio come qualsiasi struttura di potere razzista, esiste nella misura in cui è in grado di nascondere agli occhi delle vittime e degli attivisti le cause profonde dello sfruttamento economico, politico e sociale. È un meccanismo per attirare l’attenzione altrove. Non dimentichiamo anche l’avvertimento di Kwame Ture (al secolo Stokely Carmichael, uno dei capi del movimento per il black power negli Stati Uniti e poi panafricano, ndr) di non confondere successi individuali con vittorie collettive. La maggioranza dei kenyani – che siano di etnia Luo, Kikuyu, Luhya o altre – sono poveri. Il 60% dei kenyani vive con meno di due dollari al giorno, e ciò riguarda tutte le etnie. L’elite kykuyu prospera a spese dei poveri kykuyu; e lo stesso avviene per gli altri. I poveri di tutti i gruppi etnici hanno molto più in comune di quanto non abbiamo in comune i poveri e i ricchi della stessa etnia. Razzismo, nazionalismo ed etnocrazia tutte esigono che i poveri muoiano per difendere le strutture sociali che li mantengono nella povertà. Non sorprende che sia i morti sia chi ha ucciso in Kenya nelle scorse settimane fossero, da entrambe le parti, poveri. E tuttavia si uccidono seguendo criteri etnici, non di classe. I partiti politici occidentali hanno espresso posizioni diverse e contraddittorie lungo la loro storia, così pure è accaduto per i partiti africani. Nelle dittature degli Anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso, le opposizioni politiche erano “i buoni”. Ma gli analisti politici internazionali progressisti ancora usano quel modello di lettura, che oggi ci impedisce di vedere le palesi contraddizioni davanti noi. Un esperto ben informato sulla complessa trasformazione della politica africana negli ultimi due decenni non può partire più dall’assunto che l’opposizione politica sia automaticamente rappresentativa di una forza popolare. Prendiamo ad esempio il caso dello Zimbabwe. Il Movimento per il cambiamento democratico, all’opposizione, è un partito neoliberista. Definirlo rivoluzionario o antimperialista sarebbe un errore. In Kenya, sia il governo al potere sia l’opposizione vedono spostarsi dall’uno all’altra i reciproci parlamentari con il cambiare delle rispettive posizioni politiche, con lo scopo di spartirsi le poltrone. William Ruto, uno dei capi del Odm è stato in passato il tesoriere dell’ala giovanile del partito Kanu, un organizzazione di teppisti utili alla politica creata dall’ex dittatore Moi, il quale ora è dalla parte di Kibaki. E faccio notare che il recente attacco alla chiesa in cui sono state uccise 50 persone è avvenuto a Eldoret, bacino elettorale di William Ruto, di cui è stato per molti anni il deputato eletto in parlamento.

Non tutti i partiti d’opposizione sono quindi antimperialisti o contrari all’intenzione del capitale globale di compattare il mondo. IN tempi in cui le nazioni ricche e le loro elite diventano sempre più ricche e le nazioni povere e i loro poveri diventano sempre più miseri, alcuni partiti d’opposizione scelgono di stare dalla parte del capitalismo globale. L’Odm include alcune delle persone più ricche del paese. Ad esempio la famiglia Odinga è proprietaria della fabbrica di melassa Spectre International e ha legami con una multinazionale petrolifera e mineraria per l’estrazione dei diamanti. Sulla stampa internazionale Raila è definito come un “brillante milionario”, il che non è del tutto falso. Ciò detto, è cruciale capire cosa significhi essere un movimento del popolo. Affinché una politica per il popolo sia davvero efficace, la solidarietà deve attraversare tutte le etnie. In altre parole, un movimento che tragga il suo potere dal popolo deve essere fondato sulla coscienza degli oppressi. Poiché non ha una base sviluppata in anni di lavoro con e per il popolo, l’Odm può solo sollevare il malcontento puntando sull’etnicità piuttosto che organizzare l’intero paese contro lo sfruttamento da parte delle elites. Come tutti i movimenti populisti, fa leva sulle peggiori paure della gente (quella di una dominazione kikuyu, per esempio) e le proietta sulla scena politica nazionale. Al contrario, un movimento che sia davvero per il potere popolare scarterebbe queste paure per mettere in evidenza come il potere e il benessere vengono iniquamente distribuiti. Poiché l’Odm non lo ha fatto, i suoi sostenitori hanno identificato i poveri kikuyu come nemici. Un movimento per il potere popolare avrebbe diretto le sue energie e la sua rabbia contro lo stato, non contro un’altra etnia. Un movimento per il popolo dichiarerebbe la sua solidarietà con gli emarginati di tutto il mondo. È terzomondista nella sua visione. Un movimento per il popolo, poiché la sua visione nasce organicamente dalla sua lotta e dal suo impegno al fianco del popolo, presenta una posizione contro un sistema economico internazionale di sfruttamento poiché i suoi membri sono resi più poveri da quei meccanismi. L’Odm non può essere definito come panafricano e terzomondista, piuttosto ha una coscienza populista. Inoltre, il guscio – la facciata – di movimento del popolo può essere usata dall’elite nazionale per conquistare il potere ma al servizio del capitale internazionale. Piuttosto che usare un termine come populista o popolare per riferirsi all’ Odm, sembra utile prendere in prestito una definizione dell’International Republican Institute (Iri, organizzazione fondata dall’ex-presidente Ronald Regan per promuovere “programmi di democratizzazione” nel mondo, ndr): “consolidamento democratico” con riferimento a una tecnica utilizzata dall’Iri nella Rivoluzione arancione in Ucraina e nella rivolta haitiana che portò alla deposizione del presidente Aristide. Il “consolidamento democratico” si traduce nel mettere insieme le organizzazioni della società civile (religiose, universitarie, ong locali, associazioni di donne, etc) e unire le diverse fazioni dell’opposizione in unica forza elettorale. Se i missionari aprirono la strada al colonialismo, i gruppi evangelici delle democrazie occidentali come l’Iri aprono oggi la strada alla politica estera degli Stati Uniti. L’unico vero scopo del “consolidamento democratico” è rimuovere i governi al potere. Non c’è nessuna sottostante e coerente ideologia collegabile al popolo, nessun interesse a dare potere al popolo o a restituire l’economia e le istituzioni alla sovranità popolare. Anzichè sviluppare vere radici con il popolo, in modo da diventare una sua estensione una volta al potere, l’Odm ha scelto il facile percorso del “consolidamento democratico” indicato dal modello Iri. Dobbiamo urgentemente distinguere tra movimenti per il potere popolare (come quelli che vediamo in America latina), movimenti populisti e movimenti d’opposizione neoliberali the consolidano le istituzioni democratiche a beneficio del capitale internazionale. I movimenti per il potere popolare sono una quinta forza solitamente in opposizione alle quattro esistenti: i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario e militare.

Quando prendono il potere con mezzi democratici, i movimenti per il popolo cercano di trasformare le altre quattro forze in strumenti della rivoluzione. Vengono varate leggi per la nazionalizzazione delle risorse o per la redistribuzione delle risorse e della terra. L’esercito viene trasformato da strumento di intimidazione a una forza di soccorso in caso di calamità naturali. In poche parole, un governo per il potere popolare mette il popolo al centro dello stato. Quando un movimento che ha agito per il “consolidamento democratico” prende il potere fa esattamente l’opposto e le strutture democratiche diventano uno strumento del capitale globale e della politica estera degli Stati Uniti. La Liberia, per esempio, dopo avere lavorato con l’Iri, è uno dei pochi paesi ad aver aperto le sue porte allo Us African command centre. E dobbiamo almeno riflettere sul fatto che nelle passate settimane l’Odm non si è impegnato nella fase finale di una rivoluzione popolare ma piuttosto nell’ultimo passaggio del consolidamento democratico neoliberale, usando le persone come una testa d’ariete contro lo stato. È quello che accade quando un partito neoliberale chiama milioni di persone a scendere in piazza con la speranza di paralizzare lo stato. Poiché il “consolidamento democratico” ha bisogno del flusso e riflusso dato dalla violenza dello stato e della protesta del popolo, Raila, interrogato dalla Bbc se avrebbe fatto appello alla calma, ha potuto cinicamente dichiarare: “Mi rifiuto di dare un anestetico ai kenyani così che possano essere stuprati”.

Nel caso ve lo chiedeste, lasciatemi in ogni caso dire che per i progressisti non è Kibaki la risposta. Prima delle elezioni, la Commissione kenyana per i diritti umani ha reso pubblico un rapporto in cui si accusa la polizia di quasi 500 uccisioni di giovani uomini, tutti da quartieri come Kibera e Mattare, baraccopoli in fermento. È il segnale che la crescita economica del 6% non arriva alla gente più in basso, neanche le briciole. Il che significa anche che la compravendita del voto (su entrambi i fronti politici) è quasi una certezza. Sufficienti dubbi sono stati espressi dalla commissione elettorale per un riconteggio delle preferenze, una ripetizione del voto, un governo di unità nazionale o altra idonea soluzione all’interno delle regole democratiche. Se vogliamo riconciliare il paese e avere giustizia, le voci progressiste dovrebbero chiedere un’inchiesta delle Nazioni Unite sulla pulizia etnica successiva alle elezioni avvenuta a dicembre e a gennaio a Eldoret e in altre aree. Dovrebbe esserci un’inchiesta dell’Onu anche su quel che accadde nel 1994 nella Rift valley dove centinaia di kikuyu vennero assassinati e migliaia furono costretti alla fuga durante il regime di Moi, come anche nel massacro di Wagalla nel 1984 (sempre durante il regime di Moi), in cui centinaia di keniani di etnia somala furono uccisi. Infine dovrebbe essere aperta un’inchiesta anche sulle morti, non collegate alle elezioni, dei 500 ragazzi, lo scorso anno. I progressisti dovrebbero chiedere che la crisi sia risolta all’interno delle strutture democratiche. Quando Bush vinse un’elezione che noi non abbiamo chiesto ad Al Gore di provare a rovesciare il governo con una rivoluzione arancione, non gli abbiamo chiesto di dividere il paese secondo direttrici razziali: neri contro bianchi, bianchi contro latinos; gli abbiamo chiesto di rimediare usando procedure pacifiche e democratiche. E per questa ragione gli Stati Uniti sono ancora in piedi, nonostante Bush. Sia Raila che Kibaki possono creare un governo d’unità; chiedere un riconteggio dei voti e anche nuove elezioni. Qualunque sia il modo con cui ci si arrivi deve essere uno che lasci il Kenya in piedi per le generazioni a venire.

Il mio appello è questo: “Non cerchiamo rivoluzionari dove non ne esistono”. La solidarietà internazionale dovrebbe essere con il popolo keniano e non con i singoli capi. Un’intera nazione è in gioco. La cosa migliore per il Kenya è che ora torni su una via pacifica governata da strutture democratiche tali da sopravvivere a Raila e a Kibaki. Questo renderà possibile un governo con il potere del popolo attraverso una rivoluzione democratica.

[Mukoma Wa Ngugi, autore dell’articolo tradotto dalla MISNA, è poeta, scrittore ed editorialista keniano e Coordinatore delle conferenze dell’organizzazione panafricana “Toward an Africa without Borders”; per le due parti precedenti dell’articolo vedi notiziario di stamani e di ieri sera.]

Rivoluzionari? Si, ma con la Pelle degli Altri

Ho trovato sul New Internationalist di quasi un mese fa un articolo di analisi sulla situazione sociale del Kenya che trovo molto chiaro e acuto, e estremamente preciso nei fatti che cita. L’ autore e’ keniano, il che e’ indubbiamente un valore aggiunto, in questi tempi in cui si leggono e si sentono molte cose sul Kenya scritta da persone che col Kenya non hanno molta familiarita’.

Qualcuno potrebbe essere infastidito dall’ uso di categorie “marxiste”, ma queste categorie sono ormai parte della sociologia e fintanto che aiutano a capire siano benvenute. A me e’ sembrato fuori luogo l’ inutile parallelo fra missionari di un tempo e l’ IRI di adesso, che non aggiunge niente al discorso, e’ solo un luogo comune tutto da provare.

Ho trovato invece illuminante il pur brevissimo parallelo fra i fatti del Kenya e la rivoluzione ucraina. Come ho gia’ scritto, anche un giornalista ottimo conoscitore dell’ Ucraina si era accorto di notevoli sominglianze fra il modo con cui l’ ODM ha condotto la sua campagna elettorale e quanto era stato fatto in Ucraina. Che ci sia davvero una matrice comune?

Riporto l’ articolo in questione qui sotto. Purtroppo non ho il tempo di tradurlo dall’ inglese, se qualcuno si prestasse a questo servizio sarei poi ben contento di metterolo sul blog in italiano.

L’ originale lo trovate a http://www.newint.org/features/special/2008/01/11/kenya/index.php

From New Internationalist, January 11 2008

Let us not find revolutionaries where there are none

Mukoma Wa Ngugi, urges us to be wary of the democratic revolutionary claims made by various parties in Kenya.

One cannot fully grasp what is happening in Kenya and Africa without considering the changing nature of opposition movements and the differences between a people powered movement, or a democratic revolution, and a plethora of movements that consolidate democratic institutions for international capital while flying under the radar of democracy.

Even though here below I am mainly speaking about Raila Odinga and the Orange Democratic Movement (ODM), I could just as easily be speaking about Mwai Kibaki and the Party of National Unity (PNU). It is only because ODM has actively courted the image of being a people powered movement engaged in a democratic revolution that I draw your attention to it. Amilcar Cabral once said ‘tell no lies, claim no small victories.’ It is in that spirit that I write.

Let me begin by pointing to the question of ethnicity and say this: In the same way you ought to be surprised to meet a white American denying the existence of racism in American politics, so should you be when you meet an African denying that ethnocentrism is deeply entrenched in African politics. Racism is a historical creation that serves a function – so is ‘tribalism’. In the same way that leaders in the West manipulate race and fear for political goals, so do African leaders. Ethnocentrism can be benign or extremely vicious depending on its conductor. Ethnocracy, like a racist power structure, exists to the extent it is able to obscure for the victim and the activist the root causes of economic, political and social exploitation. It misdirects.

Let us also consider Kwame Ture’s (Stokely Carmichael) reminder that we should not mistake individual success for collective success. The majority of Kenyans – Luos, Kikuyus, Luhyas etc – are poor. The 60 per cent of Kenyans living under two dollars a day cut across all ethnicities. The Kikuyu élite live at the expense of the Kikuyu poor; it is the same for other ethnicities. There is much more in common between the poor across ethnicities, than between the élite and the poor of each ethnicity. Racism, nationalism, and ethnocracy all ask that the poor die in the defense of economic and social structures that keep them poor. It is no surprise that those who have been both dying and doing the killing in Kenya in the past week are the poor. Yet they are killing along ethnic, not class, lines.

And in the same way that over time Western political parties come to represent different and contradictory positions, so have African political parties. In the dictatorships of the 1960s, 70s and 80s, the opposition parties were the good guys. Progressive international political analysts are still working with that framework, which has blinded us to glaring present-day contradictions. The assumption that opposition immediately means people-power cannot be sustained by an analysis informed by the complex shifts in African politics in the last two decades. Take Zimbabwe, for example. The opposition Movement for Democratic Change is a neoliberal party. Calling it revolutionary or anti-imperialist would be wrong. In Kenya, both the sitting Government and the opposition exchange members fluidly as they position and reposition themselves, eyes on the national cake. William Ruto, a top leader in the ODM was previously a treasurer for the KANU Youth Wing – a political thug organization created by former dictator Moi, who is now in Kibaki’s camp. And the recent church killings that claimed over 50 lives took place in Eldoret, which William Ruto has represented in parliament for many years.

People power

Therefore not all opposition parties are anti-imperialist or opposed to the move by global capital to consolidate the world. At a time when the rich nations and their élite are getting richer, and the poorer nations and the poor within them are getting poorer, some opposition parties will choose the side of global capital. ODM is composed of some of the wealthiest people in the country. For example, the Odinga family owns Spectre International, a molasses company in conjunction with a multinational petroleum and diamond mining company. The international press, which refers to Raila as a ‘flamboyant millionaire’, is not entirely wrong.

With the above said, analysis of what it means to be a people powered movement is crucial. For people-power politics to be effective, solidarity has to be across ethnicity not along it. In other words, a people power movement has to, at its basis, be informed by the consciousness of a collective oppressed. Because it has no real grassroots developed over years of working with and for the people, ODM can only rile up discontentment by pointing to one ethnicity rather than organizing the whole country against élite exploitation. Like any populist movement it takes the worst fears of a people (fear of Kikuyu domination for example) and plays them out in the national stage. A people power movement on the other hand peels away these fears to reveal how power and wealth are being distributed. Because ODM has not done this, its supporters have identified the fellow poor Kikuyu as the enemy. A people power movement would have directed its energies and anger at the state not at another ethnicity.

A people power movement declares its solidarity with other marginalized peoples across the world. It is Third-Worldist in vision. A people power movement, because its vision grows organically from its struggle and engagement with the people, exhibits a stand against exploitative international economic arrangements because its constituents are impoverished through them. ODM cannot be termed as radical pan-Africanist or Third-Worldist, rather it has a populist consciousness.

Also, the shell – the façade – of a people power movement can be used by a national élite to seize power for international capital. Rather than use the term populist/people power to refer to ODM, it is appropriate to borrow a term from the International Republican Institute. The term the IRI uses is ‘consolidating democracy’, referring to a technique it used in the Ukrainian Orange Revolution and in Haiti against Aristide. Consolidating democracy translates into bringing together civil organizations (religious, universities, local NGO’s, women’s organizations, etc.), and uniting various opposition factions into one large electoral force. If missionaries paved the way for colonialism, evangelists of Western democracy like IRI pave the way for US foreign policy.

The sole purpose of consolidating democracy is to remove the sitting government. There is no coherent underlying people-centered ideology in this goal – no interest in empowering the people, or returning economic and political institutions to them. Rather than develop real roots with the people so that when in power the ODM becomes an extension of them, the ODM has taken the easy route of consolidating democracy following the IRI model.

We urgently need to distinguish between people power movements (such as those we have seen in Latin America), populist movements, and neoliberal opposition movements that consolidate democratic institutions for global capitalism. People power movements are a fifth force usually in opposition to the legislature, executive, judiciary and military. When they seize power through democratic means, they immediately attempt to transform the other four forces into revolutionary instruments. Laws nationalizing resources or redistributing land and resources are passed. The army is transformed from an instrument of intimidation into one that helps in times of disasters – in short a people power government places the people at the center of the state. When a movement that has been consolidating democracy gets into power it does the opposite, and the democratic structures become instruments of global capital and US foreign policy. Liberia, for example, after working with IRI is one of the few countries to open its national door to the US African Command Center.

We should at least consider that the ODM has in the last few weeks not been engaged in the last phase of a people power revolution but rather in the last stage of consolidating neoliberal democracy – using the people as the battling ram against the state. This is where the neoliberal party calls for millions to take to the streets with the hope of immobilizing the state. Because consolidating democracy requires the ebb and flow of violence from the state and protest from the people, Raila could cynically tell a BBC reporter when asked whether he will appeal for calm that ‘I refuse to be asked to give the Kenyan people an anesthetic so that they can be raped.’

Wounds need healing

In case you are wondering, let me say this: for progressives, Kibaki is not the answer. Before the elections, the Kenyan Human Rights Commission released a report implicating the Kenya police in extra-judicial killings of close to 500 young men, all from poverty stricken areas such as Kibera and Mathare, slums currently up in flames. This is a stark reminder that the 6 per cent economic growth was not trickling down to the people. Also that vote-rigging took place (on both sides as it turns out) is almost certain. Enough doubt has been cast by the electoral commissioners to make a recount of the votes, a re-election, a united government or another suitable solution a matter of democratic principle.

If the country is to heal, reconcile and find justice, progressive voices should call for a UN probe into the December – January post-election ethnic cleansing in Eldoret and other areas. There should be calls and support for a United Nations probe into the 1994 Rift Valley killings in which a reported hundreds of Kikuyus were killed and thousands displaced during Moi’s regime, and The Wagalla Massacre of 1984 (again during Moi’s regime) in which hundreds of Somali Kenyans were shot to death. Finally the non-electoral extra judicial killings of the 500 young men last year should also be investigated.

Progressives should also call for the crisis to be resolved within democratic structures. When Bush won an election that the rest of the world understood as rigged, we did not ask Al Gore to try and overthrow the government through an Orange revolution, we did not ask him to divide the country across racial lines, blacks pitted against whites, whites pitted against Latinos; we asked him to find redress through peaceful and democratic processes. And for that, the United States remains standing, in spite of Bush. Al Gore did not ask for a recount of all the votes, or for a re-election. But both Raila and Kibaki can form a united government; ask for a recount, and even a re-election. Whatever process or option is used to adjudicate this must be one that leaves Kenya standing for generations to come.

My plea to you is this: Let us not find revolutionaries where there are none. International solidarity should be with the Kenyan people and not with individual leaders. A whole nation is at stake. The best thing for Kenya right now is a return to a non-violent path governed by principled democratic structures that will outlive both Raila and Kibaki. It is this that will make possible a people-powered government through a democratic revolution.

Mukoma Wa Ngugi is co-editor of Pambazuka News, author of Hurling Words at Consciousness and a political columnist for the BBC Focus on Africa Magazine.

Normalita’. O quasi.

I negoziati fra Governo e opposizione continuano. Sono ancora su posizioni molto distanti. Si teme che se non dovessero fare qualche passo avanti entro pochi giorni, una settimana, potrebbe scatenarsi un’ altra manovrata ondata di violenza.

La vita a Nairobi sembra assolutamente normale. Gli sfollati bisogna andarli a cercare, altrimenti sono invisibili, confinati in località precise dove ricevono aiuti. Koinonia e Africa Peace Point continuano a fare donazioni in generi alimentari e coperte, con il coordinamento della Croce Rossa.

Un amico mi ha fatto notare una cosa che non e’ normale nel traffico cittadino, soprattutto il primo mattino: c’e’ un numero molto più alto del solito di mkokoti – i carretti spinti a mano, che sono un’ attività dei ragazzi di strada – e di camioncini di tutte le dimensioni carichi di mobili. Il fatto e’ che molte famiglie si stanno trasferendo, non ritenendosi più al sicuro nella zona in cui vivono. I luo, che sono un minoranza a Riruta, quando rientrano a sera si trovano un bigliettino sotto la porta della baracca o della casa che dice “vai via di qui, non ti vogliamo più’. Lo stesso capita ai kikuyu di Kibera, o ai Kalenjin di Kawangware. Sembra, speriamo che non sia vero e che ci si fermi  in tempo, che Nairobi rischi di diventare un conglomerato di piccoli “bantustan”, la famigerata invenzione dell’ apartheid sudafricano. Un’ apartheid, una bantustanizzazione non imposta dall’ alto, ma volontaria, per modo di dire. Alcuni si rifiutano. Ieri i ragazzi di Kivuli delle pallacanestro si sono fermati per un breve incontro dopo l’ allenamento e, dopo aver riaffermato che nella loro squadra non devono esistere discriminazioni etniche, i  luo presenti hanno appunto raccontato di aver trovato gli infami bigliettini sotto la porta, ma di aver deciso con le loro famiglie di restare. “Siamo sempre vissuti senza dare una priorità’ particolare alla nostra appartenenza etnica, perché’ dovremmo incominciare ora?” Ci dovrebbero essere più’ keniani cosi.

Invece Charles, un ragazzo luo che fa il giardiniere alla Shalom House, e’ venuto mercoledi mattina, gli occhi gonfi da una notte insonne, a dirmi a dirmi che lo avevano chiamato dal villaggio al sera prima. Charles ha 21 anni ed e’ il capofamiglia, i genitori sono morti di AIDS, e col suo lavoro mantiene a scuola una sorella e un fratello minori che vivono al villaggio con dei lontani parenti. Dal villaggio gli hanno detto che la sorella e’ gravissima all’ ospedale perché’ un matatu su cui viaggiava e’ stato fermato ad un blocco stradale, tutti i passeggeri sono stati picchiati e poi derubati. Naturalmente Charles temeva che la sorella fosse stata stuprata, perché quest’azione sembra essere diventata comune. La settimana scorsa il Nairobi Women’s Hospital ha dichiarato di aver trattato 242 pazienti vittime di abusi sessuali, 213 femmine e 29 maschi. Deltotale 94 erano minori. Ho dato a Charles il permesso di assentarsi per 4 giorni perche andare a casa sua, una delle zone critiche durante l’ ultimo mese, ci vuole un giorno intero di viaggio.

Charles mi ha telefonato ieri, sollevato perché’ la sorella sta meglio, non e’ stata stuprata  e ancor più’ sollevato perché’ l’ attacco non era di natura etnica ma opera di semplici criminali che approfittano della confusione per operare impunemente.

Verso il sinodo Africano – La Parola agli Oppressi

L’appuntamento per il secondo Sinodo Africano, nel 2009, avrà come titolo “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Due i soggetti da ascoltare: le vittime e gli esperti di pace. La chiesa deve evitare la visione sterile sull’Africa contenuta nei Lineamenta e non può temere di affrontare la questione tribale.

Nell’aprile del 1997, tre anni dopo il genocidio rwandese e la celebrazione del Primo sinodo africano, la chiesa africana tenne a Nairobi una “Consultazione sulla crisi nella regione dei Grandi Laghi”. Fu un evento ad altissimo livello, finanziato dal Vaticano e organizzato dal Simposio delle conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (Secam), vide la presenza di una decina di cardinali (africani e rappresentanti delle congregazioni romane) e di circa sessanta tra vescovi e arcivescovi di tutto il continente. La stampa, però, non fu ammessa, a motivo della riservatezza e importanza dei temi trattati.
L’incontro avrebbe dovuto essere l’occasione per un serio esame di coscienza sulle responsabilità che la chiesa stessa – nelle persone di alcuni vescovi, preti e suore – aveva avuto negli eventi del Rwanda. Tutti si aspettavano che una cosi alta consultazione potesse produrre un documento forte e dare indicazioni concrete su come la chiesa si debba porre e debba agire di fronte alle guerre etniche.
Invece, il documento finale – una decina di pagine – è di una povertà sconcertante: un susseguirsi di luoghi comuni, di pie esortazioni e di generiche e scontate raccomandazioni, per di più espresse con un linguaggio timido e timoroso.
La prima raccomandazione, incredibilmente, chiese «alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli di continuare a sostenere i vescovi di questa regione con aiuti speciali e far crescere nelle chiese sorelle di tutto il mondo la consapevolezza della necessità di una generosa solidarietà con queste chiese vittimizzate». L’aver messo in cima alla lista delle raccomandazioni la richiesta di fondi evidenziò, ancora una volta, una malsana mentalità di dipendenza: più che pensare alla formazione delle persone e all’uso delle risorse umane locali, si fece appello all’elemosina. Chi lesse il documento non percepì l’urgenza di avviare programmi concreti per educare la gente alla riconciliazione, alla convivenza e alla pace.
Solo alla fine, come ultima raccomandazione, si invitò «gli episcopati del continente a preparare una struttura competente (think-tank) che li possa aiutare nell’analisi dei problemi e delle situazioni, cosi da poter allertare in tempo il popolo di Dio e intervenire adeguatamente, specie nei momenti di crisi». A tutt’oggi, non sono a conoscenza dell’esistenza, in tutto il continente, di una qualche struttura di questo genere che possa essere considerata la risposta pratica a quella raccomandazione.
Di fatto, la consultazione del 1997 cadde presto nel dimenticatoio. Per trovare una qualsiasi notizia su di essa e copia del documento finale – mi ricordavo di questo “evento”, perché m’era stato negato l’accesso all’aula in cui si svolgevano i lavori – ho dovuto scartabellare in diverse biblioteche di Nairobi.

La voce delle vittime

Ho voluto ricordare questo “fallimento”, perché il secondo Sinodo africano, che è ormai alle porte (sarà celebrato nell’ottobre 2009), avrà come tema “La chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Si tratta di un tema urgente nell’oggi della chiesa africana, Per approfondirlo, però, bisogna affrontare senza paure la questione dell’etnicità e dei conflitti etnici e poi suggerire precise indicazioni pastorali utili ad aprire piste concrete su cui camminare nel futuro. L’etnicità è un tema inevitabile, pena l’irrilevanza.
Per evitare di cadere nei soliti luoghi comuni, il sinodo potrebbe valorizzare il contributo di due particolari gruppi di persone.
Innanzitutto, le vittime. Mentre visitavo un gruppo di sfollati, in seguito alle recenti violenze post-elettorali nella baraccopoli di Kibera (Nairobi), un amico keniano m’ha detto: «Perché i nostri vescovi imitano gli uomini politici, limitandosi a fare dichiarazioni alla televisione, invece di essere qui con noi? Sì, proprio qui, senza automobili, senza segretari e giornalisti al seguito. Qui, con i vestiti da lavoro, come questi volontari, per distribuire pane e latte, imboccare i bambini affamati, lavare i loro vestiti e, soprattutto, ascoltare le storie della gente, Vedrebbero le loro lacrime e sentirebbero i loro singhiozzi. Solo dopo le loro parole suonerebbero più vere».
Forse Kamau esagerava. Ma il suo sfogo ci ricorda che le sofferenze delle vittime delle guerre e delle discriminazioni razziali e dei conflitti etnici dovrebbero essere presenti “con forza” in un sinodo ecclesiale che voglia avere credibilità. Si dovrebbe fare in modo che rappresentanti di gruppi umani colpito dilaniati dall’etnicità esasperata possano parlare ai vescovi. L’Africa, allora, farebbe il suo ingresso nel sinodo.
Il documento preparatorio del sinodo (Lineamenta), invece, dà dell’Africa una visione, magari puntigliosamente equilibrata, ma assolutamente sterile: non aiuta le comunità cristiane a mettere l’amore per le vittime al centro della propria attenzione. Questo “distacco” (sono gli altri a parlare dell’Africa, non l’Africa che si racconta) diventa preoccupante quando i Lineamenta sorvolano sulle responsabilità delle stessa chiesa (proprio come fece la consultazione del ’97). Nella prima stesura di un documento che i religiosi del Kenya stanno preparando come contributo al Sinodo, si esprime precisamente questa preoccupazione e si sottolinea la necessità di parlare onestamente dei peccati della chiesa. Vi si indicano, come punti critici, il ruolo e la pratica dell’autorità, la centralizzazione nel potere, la presenza del tribalismo nella chiesa stessa, i cedimenti e compromessi della chiesa di fronte alla politica. Dare voce alle vittime aiuterebbe a essere più concreti e a superare gli errori del passato e del presente.

Gli esperti

Non sono un fanatico degli “esperti” o di coloro che si definiscono tali. So, per averli visti in azione in Sudan e in altre parti dell’Africa, quanto questi experts di peace-making e peace-keeping (da quelli che imbracciano il mitra a quelli armati di buone intenzioni) siano spesso penosamente impotenti di fronte alle sfide poste dai conflitti etnici. Tuttavia, come la chiesa in passato ha accettato e assunto le competenze di esperti nelle più diverse scienze umane, oggi dovrebbe cominciare ad avvalersi delle esperienze e riflessioni degli “esperti di pace”. Gli studi sulla pace hanno compiuto progressi enormi.
La natura stessa del sinodo (un incontro di vescovi) consente a questi esperti di parteciparvi solo marginalmente. Ciò non toglie che le conoscenze e le tecniche che essi hanno sviluppato debbano essere presenti. Ci sono istituzioni cattoliche (Jesuit Refugee Service, Pax Christi…) che hanno dimensioni ed esperienze mondiali, con rilevanti strutture in Africa. La loro partecipazione al sinodo potrebbe essere valorizzata. Soprattutto, essi potrebbero aiutare i vescovi a dare non solo indicazioni generali, ma anche a preparare programmi pastorali mirati a superare il tribalismo dentro e fuori della chiesa.
In materia di etnicità, una questione che il sinodo potrebbe aiutare a chiarire è quella della terminologia. Capita che un problema non venga affrontato perché manca un vocabolario appropriato, o perché certe parole fanno paura. “Tribù” e “tribalismo” sono termini ormai squalificati dall’uso negativo (a volte denigratorio) che se n’è fatto in Occidente. Eetnia e etnicità sono più “neutri”; “comunità” è la parola entrata nell’uso comune in Kenya per indicare il proprio gruppo etnico, anche se ma diventa chiara solo in un preciso contesto. Ma dell’appartenenza etnica si dovrà parlare, anche solo per capirne le dimensioni positive.

La Strada verso la Pace

Stamattina il Nation esce con il titolo Road map to peace. Finalmente. I due team di negoziatori hanno accettato l’ agenda proposta da Kofi Annan. Il punto piu’ urgente e’ porre termine alle violenze entro sette o al massimo quindici giorni. Poi Kofi Annan, molto intelligentemente, approfitta del consenso per affermare che per risolvere i problemi a lungo termine ci vorra’ meno di un anno. Il che aiuta a calmare gli animi e a non esigere soluzioni miracolistiche immediate.

Per arrivare alla cessazione delle violenze entro quindici giorni il comunicato congiunto afferma che la legge deve essere rispettata da tutti; i lavoratori, si del settore statale che privato possano tornare ai loro posti di lavoro; le scuole vengano riaperte, tutti gli sfollati siano protetti ed assistiti a ritornare alle loro case e campi; i messaggi di odio tribale che sono stati diffusi attraverso i cellulari e le radio cessino immediatamente. E che chi ha commesso atti contro la legge – come vandalizzare, saccheggiare, bruciare case e uccidere – sia perseguito e processato.

Non sara’ facile, ma, come ho sempre sottolineato nelle interviste che ho fatto in questi giorni, e’ possibile. Perche’ la maggioranza dei manifestanti di questi giorni ( spesso poche centinaia di persone hanno tenuto in ostaggio una cittadina), cosi come la polizia, ha agito dietro ordini superiori. C’e’ solo da sperare che l’ odio seminato non abbia ancora messo radici tanto profonde da non poter essere estirpato.

Oltre al rispetto della legge il comunicato sottolinea che ogni keniano ha il diritto di risiedere in ogni parte del Paese, e questo sara’ un punto critico da far rispettare. L’altro giorno ho parlato per telefono con un avvocato kikuyu che si era rifugiato con la famiglia nella prigione di Naivasha e mi chiedeva se potevo aiutarlo ad arrivare a Nairobi. La sua casa e i sui campi a Eldoret sono stati bruciati da gruppi di giovani – purtroppo i giovani disperati e manipolati sono stati al centro di questa crisi – al grido di “Fuori tutti i kikuyu dalla Rift Valley”.

E’ interessante anche che nel comunicato ci sia per la prima volta un’ ammissione implicita importante: che telefonini e radio private sono state usate per le campagne di odio contro i rivali, e che quindi c’e’ stata una campagna di violenza orchestrata, non che la frustrazione e la rabbia della gente sia spontaneamente esplosa.

E’ un primo passo. Le due prossime settimane ci diranno se i leaders hanno intenzione di mantenere la parola data. Spero di si, se non altro per i danni enormi che il Kenya ha subito. Innanzitutto il danno morale e il danno all’unita’ del paese – tre giorni fa ho sentito in una radio un leader farneticare sull’ indipendenza del Western Kenya – ma anche per il danno economico. Nello stesso giornale di oggi si dice che centinaia di migliaia di lavoratori hanno perso il posto, una sola compagnia di trasporto ha licenziato 600 autisti. Sulla costa, dei 150 grandi alberghi 20 sono gia’ chiusi, 25,000 lavoratori hanno perso il posto, e molti altri lo perderanno. La stima e’ che in totale mezzo milione di lavoratori hanno perso o sono a rischio di perdere il posto nelle prossime settimane.

Una responsabilita’ grande sara’ quella di capire meglio come mai tanta disponibilita’ alla violenza fra i giovani. La poverta’ e il tribalismo non mi paiono sufficienti a spiegarla. Ci sono, credo, cause piu’ profonde. Bisogna cercarle e porvi rimedio. Non e’ possibile lasciare che questi giovani si rovinino e conducano il paese alla rovina. E qui la chiesa, che ha capacita’ di formazione umana a lungo termine, ha una responsabilita’ particolare.

Noi come Koinonia e Africa Peace Point facciamo piccoli interventi nei due o tre campi di sfollati che ci sono a Nairobi, uno e’ a Jamhuri, vicino alla Shalom House. Con l’ aiuto di amici italiani e anche di altri paesi (per esempio un piccola associazione di bambini della Slovacchia ci ha donato cinquemila novecento euro), e con una raccolta locale da una decina di giorni riusciamo a distribuire ogni giorno circa tre o quattrocento cento chili di vestiti e generi alimentari ed altre cose di prima necessita’, dalle pentole per cucinare alle coperte. Michael segue questa cosa, credo che stia per pubblicare un rendiconto nel sito di APP (www.africapeacepoint.org).

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