Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

December, 2007:

La Capanna Vuota di Hassan

Hassan ha diciannove anni, ma è piccolo e minuto per la sua età. Si muove agile su un sentiero che solo lui vede, infiltrandosi fra enormi sassi, passando attraverso stretti cunicoli che si aprono improvvisamente su squarci di paesaggio che lasciano senza fiato.

È un caldo e limpido pomeriggio. Andiamo a far visita a sua madre, vedova e cieca, fin da quando suo figlio aveva pochi mesi. Finalmente arriviamo alla nostra meta: è una casa fatta di sassi, arroccata su una terrazza naturale che guarda verso la valle di Kauda, quasi completamente nascosta da un enorme fico selvatico.

Quando si arriva sui Monti Nuba, si ha di primo acchito l’impressione di trovarsi di fronte ad una natura assolutamente selvaggia e inospitale. Ci si accorge solo dopo che in realtà i Nuba si sono inventati uno stile di vita in perfetta simbiosi con l’ ambiente in cui vivono. Ogni sentiero, ogni sasso porta il segno di una presenza umana, lieve e rispettosa. Ogni casa e ogni cosa che contiene sono tutte costruite con materiali che si possono trovare nel raggio di meno di un chilometro: sono sassi, paglia, legna, zucche secche, corde ricavate dalla corteccia degli alberi. Le tanche di plastica per l’acqua sono invece i soli corpi estranei a quest’ambiente, ma sono anche una grande comodità offerta dal mondo moderno.

Mi viene incontro Peter, il “fratello minore”, in realtà un cugino; ha nove anni ma è già quasi alto come Hassan. Dopo di lui esce la mamma che si muove con grande sicurezza, come se vedesse, nonostante i suoi occhi siano completamente chiusi e rinsecchiti. Come è potuto accadere? Mi spiega che dopo la nascita di Hassan, si era ammalata molto gravemente. Ad un certo punto i vicini pensavano fosse morta, per cui, come di consuetudine, prima di seppellirla le forzarono gli occhi, girandoli verso l’interno: i morti non hanno più bisogno di guardare avanti, devono solo guardarsi dentro. Quando si sono però accorti che era ancora viva, il danno irreparabile le era stato ormai fatto.

Taccio, per rispetto. In tanti anni, con tanti incontri con culture diverse, ho ormai perso, se mai l’ho avuta, qualsiasi pretesa di conquista, ogni presunzione di giudice, ma anche ogni illusione di riuscire a di “farsi tutto a tutti”, come diceva San Paolo. Sono ancora ai primi passi, devo ancora imparare ad ascoltare, libero dalla preoccupazione del dover insegnare, dell’avere necessariamente seguaci. Devo lasciarmi solo guidare dall’interesse sincero per le persone che mi stanno intorno, dalla loro accoglienza ed amicizia, per diventare loro amico, capace di comprendere e condividere. Per poi, quando anche il vicino si mette alla ricerca, proporre una via comune, di volgerci verso l’unico Amico che è capace di dare salvezza.

Hassan mi fa visitare con orgoglio la sua poverissima e piccolissima casa. È lui che la tiene in ordine e che fa da capofamiglia. Al mattino lui e Peter si alzano molto prima del sorgere del sole. Quando è la stagione vanno a lavorare nei campi e prendere l’acqua. Poi preparano colazione, facendo bollire farina di mais e zucchero; danno da mangiare alla mamma e quindi si dirigono verso la scuola. Non si trova molto lontano, sospira Peter; è solo a mezz’ora di cammino e porta il nome di Musa Arat, il catechista che abitava qui vicino. Quando tornano alle due del pomeriggio, bisogna aspettare che il sole cali un po’, per tornare a lavorare nei campi, che si trovano un po’ più in alto, dove la montagna va appiattendosi in una grande altopiano, dove si trova anche la scuola.

I timori che la violenza armata possa scatenarsi di nuovo

La pace fra governo e lo SPLM/A (Sudan People Liberation Movement/Army) è stata ormai firmata da quasi tre anni, preceduta da due anni di cessate il fuoco. Ma quali sono stati i progressi portati dalla pace? La mamma mormora qualcosa a voce bassa e Hassan traduce: “Dice che ha sempre vissuto qui, in questo villaggio arroccato sulla montagna, subito preso sotto il controllo dei ribelli, per cui la guerra qui non è mai arrivata. La conoscevamo solo per il suono degli scontri che avvenivano giù nella valle. Era comunque preoccupata per il figlio e per il nipote, i cui genitori erano stati uccisi dall’esercito governativo. Temeva che entrambi sarebbero stati arruolati. Adesso, senza il rumore della guerra, anche il suo cuore è in pace.”

Hassan e Peter mi dicono che quando sono a scuola continuano invece ad ascoltare avidamente il giornale radio della BBC, che coincide con l’intervallo. Sono consapevoli che la pace è ancora fragile, che in Darfur c’ è in atto una guerra devastatrice e che alcuni rifugiati sono arrivati dal Darfur fino ai Monti Nuba. Sanno che fra la SPLA e il governo ci sono molti scontri che per il momento sono solo verbali e politici, ma non mancano i timori che la violenza armata si possa scatenare di nuovo da un momento all’altro.

Ritornando verso la scuola, i due ragazzi indicano un struttura dal grande tetto di lamiera zincata che brilla sotto il sole. “È una chiesa costruita da una ONG americana; hanno promesso che costruiranno altre 150 chiese di questo tipo”, dice Hassan. Centocinquanta chiese per una popolazione di forse centomila cristiani e novecentomila islamici, non sono forse troppe? “No, perchè noi cristiani stiamo crescendo. Con tante chiese potremo pregare tanto, e Dio sarà con noi” afferma Peter. Non sa che la ONG in questione appartiene alla stessa Chiesa del presidente americano George W. Bush e che nelle sue parole riecheggia la certezza di Bush, quella che ci sia un dio che sta dalla sua parte… . Ma non sembra molto convinto, come invece lo era quando al mattino, in classe, lui e gli altri studenti chiedevano più scuole perchè tutti i loro coetanei potessero studiare. Che senso ha costruire tutte queste chiese? Per quanto mi riguarda non è più un tipo di progetto con cui mi trovo in sintonia. Vorrei riuscire solo ad essere un fratello che cammina assieme ai fratelli, che parla il linguaggio semplice ed essenziale dei gesti, degli occhi, e che quando usa le parole usa quelle di Gesù, e racconta di sole e di pioggia, di semi e di raccolti, di morte, di guarigione e di vita.

Poche centinaia di metri prima della scuola c’ è un gruppo di capanne dove abita colui che dà il nome a questo altopiano, il Kujur. Nella tradizione dei Nuba, Kujur è il mediatore tra Dio e gli uomini, quello che in italiano chiamiamo con linguaggio spregiativo “stregone”. Il Kujur di questa ha ricevuto questa carica dal padre, a cosi all’ indietro per generazioni. Ha la reputazione di custodire i segreit piu’ antichi e che le sue cure siano piu’ potenti di quelle degli altri Kujur Nuba, per questa ragione tutta la localita’ si chiama semplicemente Kujur. L’ attuale Kujur è un anziano mite e curvato dagli anni, i cui nipoti frequentano la scuola di Koinonia. Durante il giorno cura le persone che si rivolgono al lui usando la sua conoscenza delle erbe. La sua funzione più importante è quando le piogge tardano ad arrivare. Allora, su richiesta della comunità, organizza preghiere speciali. Anche quest’anno è stato così. Allora il Kujur ha chiamato altri sei anziani e al tramonto si sono trovati tutti nudi sotto il grande albero sacro. Per tutta la notte hanno versato libagioni di birra sul tronco dell’albero, hanno cantato e pregato, fino a quando il sole è sorto ed e’ tornato alto nel cielo. Allora sono rientrati nella loro capanne a riposare. Subito dopo sono venute le nuvole e prima del tramonto un gran temporale benefico ha fecondato le terre dei Nuba. Così mi racconta Peter.

Il miglior regalo sarebbe quello di avere piu’ scuole

Poi dopo un po’ di silenzio, Hassan aggiunge: “Però le sue medicine non funzionano sempre. Abbiamo bisogno di ospedali e di medici. Dopo la firma del trattato di pace ci avevano promesso tante cose. Sono venute tante delegazioni a visitarci. Ma è successo poco a nulla. Ora sembra che il grande ospedale delle Diocesi di El Obeid, giù nel fondovalle, sia stato completato e dovrebbe entrare presto in funzione. Speriamo bene. Sarebbe il miglior regalo di Natale”. “No, no” lo corregge Peter immediatamente “il miglior regalo sarebbero quello di avere più scuole, così poi noi potremo diventare dottori e curarci da soli, senza dipendere sempre dagli altri.”

A scuola i maestri stanno invitando i bambini a preparasi al Natale. Cosa faranno? Una festa: tutti gli studenti porteranno un po’ di farina di mais; l’amministrazione della scuola aggiungerà latte e zucchero. Ci sarà quindi da mangiare per tutti e si starà insieme tutto il giorno, fino al tramonto. Gli studenti inviteranno anche da ogni villaggio la mamma col neonato più piccolo. E saranno proprio questi neonati ad essere al centro dell’attenzione e dell’affetto di tutti. Non è forse Gesù venuto a noi come un bambino?

Penso al Natale di altri bambini che dovranno invece scegliere fra sofisticati giocattoli e dolci elaborati. I doni che riceveranno saranno magari un segno vero dell’affetto dei loro genitori, ma in molti casi potrebbero essere solo il simbolo di un’affannata corsa all’apparire, al successo, al denaro, al potere che riempie la vita dei loro genitori. Il niente diventa idolo ed è adorato. Invece qui il niente diventa un atteggiamento dell’animo, un’ apertura, uno spazio per l’ accoglienza degli altri, per la crescita della solidarietà. Come la povera capanna vuota di Peter, di Hassan e della loro mamma, uno spazio vuoto ma sempre pronto per accogliere chi passa vicino.

Il Bambino che viene a mani vuote e ci porta in dono solo l’Amore, quest’ anno potra’ nascere in una capanna Nuba.

(pubblicato con qualche lieve modifica in Famiglia Cristiana, n. 51, 23.12.07)

The Greatest Gift

“Father, I’d like to become a Christian”. One never gets used to these words, even if one happens to hear them many times. Now, they come from the lips of a young woman who, since two years ago, every Saturday, has been giving a hand in washing the clothes of the smallest children of Kivuli. She is little less than thirty, with three children and was never married. Sometime ago, to one of my questions about her family, she had answered me: “I want children, but I do not want a man whom I must feed. By now, our men here at Riruta are only good at making children; other than that, they are a burden. At night they come home drunk, expect that you serve them supper whereas they haven’t contributed a single shilling for it, and they beat you up for any trivial reason only to prove that they are stronger.” I tell her: “How is that? I have always thought that you were baptized; isn’t your name Esther, a Christian name?” “No, I am not baptized. Esther is only a name that my mother gave me, but I have never belonged to any church even if, on Sundays, I have always liked listening to whoever spoke about God.” Then she tells me the whole story of her life, in that exhaustive, meticulous way that only Africans are capable of. No shortcuts, everything in details, the important episodes that perhaps happened fifteen years ago, quoting the words as if they had been pronounced yesterday: “Then I told him, and he told me, and then a woman friend of mine butted in saying…”

I listen to her, I look at this woman sitting on the bench of Kivuli next to me and, in the meantime, my thoughts wander… I imagine the sufferings and disappointments of a life that had started in the dignified poverty of the village, the unexpected luck of attending secondary school, and then the slow descent into the deepest misery and destitution, the despair of being unable to provide for the most essential needs of the children, the worry about the aged parents there, at the village, who are expecting a little help from her when they are sick. The betrayals of and disappointments the “husbands” have given her… Which feelings prevail in the heart of this woman? Hatred, rebellion, refusal?

She stops talking, gathers her hands on her lap and bends her head, in a humble attitude, as if expecting a verdict. The smallest child, frightened by the silence, hides behind her.

I ask her: “Esther, why do you like to become a Christian?” She answers me without hesitation, getting hold of the child and placing him on her knees. “I do it also for them, for my children. Because I have understood that the God of Jesus loves us as we are, in flesh and blood, dirty and sick, sad or cheerful, competent or good for nothing. I had understood it since sometime past. Jesus attracts me. I got confirmation here at Kivuli, when I saw the attention and affection that Bonny, your street social operator, has for all the children he meets. I have read the Gospel. I have seen the Light”.

Jesus said to His disciples that He was sending them to announce the Good News, according to Matthew: “Cure the sick, raise the dead, cleanse the lepers, cast out devils. You received without charge, give without charge”. Gratuitousness: love given and received without calculations, without the fear of losing, without the hope of gaining something in the future, is the only way of announcing the Gospel. Esther has understood it, as well as the innumerable African mothers I have known, who called their children Given, Gift, with all the variations in the vernacular languages. They are the women who have understood that life has meaning only if it is a gift, a gift received with gratitude and offered with love, in a gratuitous way. The gift of oneself to the others is the logic of life.

It is the gratuitous gift of oneself that God wants. When Jesus, always according to Matthew, goes on saying: “Provide yourselves with no gold or silver, not even with a few coppers for your purses, with no haversack for the journey or spare tunic or footwear or a staff.” I do not think he wanted to make rigid rules for us, justified a little later by the fact that “the workman deserves his keep.” He wants rather to insist on gratuitousness. To travel without luggage means to leave room for the unexpected, not to be oppressed by the fear of not making it, it means to entrust oneself to the sense of gratuitousness of the other, besides providence.

What can I say to Esther? She has already understood that her children are the greatest gift that God has given her and she is ready to sacrifice herself for them, so that they themselves may walk towards God. I am going to tell her that God loves her and her children and that, together, we must kneel with respect and reverence in front of Jesus who has made Himself present to her.

This is to be missionaries: to contemplate the presence of the spirit of God; to remain in silence in front of the mystery in order to discover the right words, not arrogant or empty, but true and humble, in order to attempt to speak of Him and of His work to others, the friends who are around us, the indifferent who believe they can lead a full life even without Him. It is to learn where words end, silence prevails, and the Light shines on everyone.

Trent’ anni

Sono arrivato in Zambia trent’anni fa, a metá settembre del 1977. Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel ’70, avevo lavorato a Nigrizia e fatto tanti viaggi in Africa per raccogliere materiale scritto e fotografico per la pubblicazione e gli arichivi della rivista. Poi era finalmente il momento di partire per restare. Certamente nella mente di qualcuno dei miei superiori era un allontanmento, forse una punizione, per essere stato troppo vicino ai movimenti di liberazione qiuelle che erano le colonie portoghesi. La visita ai ribelli della Guinea Bissau, e il libro che ne era seguito, non erano stati accettati da tutti. Almeno inizialmente. Poi, dopo la rivoluzione dei garofani e la caduta di Caetano, quegli stessi superiori in una conferenza stampa si erano fatti belli del libro, dicendo “noi comboniani avevamo visto lontanto e da anni abbiamo fatto opposizione al colonialismo portoghese, come testimonia il libro di padre Kizito…”. Ma di tutto questo e di come gli altri vedessero le cose non mi importava niente. Finalmente partivo.

Il padre generale di allora mi aveva chiesto quale fosse la mia preferenza. Volevo andare nel Ghana, dove i comboniani era presenti da poco e che aveva bisogno di giovani? O in Kenya , dove si erano rifugiati alcuni dei nostri espulsi dall’Uganda di Amin? Il Sudafrica, che avevo visitato un paio d’anni prima, mi attirava, ma mi aveva intimorito la presenza massiccia di un gruppo di missionari anziani, quasi tutti tedeschi, con i quali temevo non mi sarei sentito in sintonia. Poi padre Agostoni aggiunse, “vorremmo anche aprire delle nuove missioni in Zambia, se te la senti…Saresti il primo comboniano ad andare in quel paese”. Padre Agostoni aveva in mente una grande strategia: i comboniani erano gia presenti in Mozambico da molti anni, e da poco erano in Malawi. Prendendo delle missioni nell’angolo orientale della Zambia, incuneato fra Mozambico e Malawi, si sarebbe creata una zona di presenza comboniana in cui si parlava praticamente la stessa lingua locale pur essendo in tre paesi diversi, rendendo possibile degli scambi di personale in caso di instabilitá politica. L’ occasione di mettere in atto questa grande strategia non venne mai. Se ben ricordo, da allora, é capitato solo una volta che un comboniano si sia spostato dal Mozambico in Malawi, accompagnando i rifugiati, negli anni ’80. Non gli lasciai comunque il tempo di pentirsi per l’ offerta, ed accettai, li dov’ero, nel giroscale della casa generalizia a Roma. Cosi son partito dall’Italia, con stopover ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove la prestigiosa rivista degli intellettuali neri Presence Africaine aveva organizzato un colloquio sul tema “Africa e Chiesa”. Arrivai in Zambia con l’incarico di rilevare la missione di Chadiza dai Padri Bianchi che avevano giá cominciato a risentire della crisi di vocazioni che avrebbe coinvolto i comboniani solo qualche anno dopo, e con nel cuore la visione di un Concilio Africano che era stata ufficialmente proposta per la prima volta ad Abidjan.

A Lusaka c’erano giá le suore comboniane, che si chiamavano ancora Pie Madri della Nigrizia, e che avevo visitato due anni prima, in un lunghisssimo viaggio che mi aveva portato in quasi tutti i paesi dell’Africa Australe. Appena arrivato a Lusaka, a metá settembre del 77, andai ad alloggiare nela casa dei Padri Bianchi, che si erano offerti di ospitarmi fino all’aprile successivo. Li risiedeva anche padre Jean Vermeullen, che mi avrebbe insegnato il chinyanja, la lingua locale. Il giorno dopo l’arrivo andai a salutare le Pie Madri, nella parrocchie di New Kanyama, un vasto quartiere popolare alla periferia di Lusaka. Suor Clara, levatrice nel piú grande ospedale pubblico della Zambia – l’University Teaching Hospital – mi suggerí “quale miglior modo di iniziare la vita in Zambia che assistere ad un parto?” Avevo il mio diploma di infermiere generico conseguito all’Ospedale di Gallarate, dove avevo anche visto qualche parto, anche se non era previsto dal corso, perché il dottore responsabile aveva una visione romantica del missionario che doveva essere capace di fare di tutto, e mi aveva doto questa possibilitá. Accettai l’invito di suor Clara, e il mattino del mio terzo giorno a Lusaka, verso le 9, assistei al parto di un maschietto. Non si prevedevano complicazioni, ed il parto avveniva in corsia, il letto separato solo da un paio di tendine. La mamma raggiante, subito dovo aver sentitio il primo pianto, lo volle fra le braccia. Quando, dopo un paio d’ore in giro per l’ospedale, tornai a quel letto, c’era giá un’altra mamma in preda alle doglie del parto, mamma e bimbo che evevo visto nascere erano giá stati dimessi.

Ho pensato spesso a quel bambino. Ormai, se gli é andata bene, e non é diventato un numero nelle statisitiche della mortalitá dovute e malattie infantili, malaria, tubercolosi e AIDS, é un uomo di trent’anni.

Sono stati trent’anni di cambiamenti per la societá e per la chiesa africana. La chiesa, anche se provvidenzialmente ormai ha vescovi e leaders quasi tutti africani, nel suo complesso ha un volto ancora troppo marcatamente europeo, e fa fatica a capire e a tenere il passo con i cambiamneti del continente. D’altronde il processo di appropriazione del Vangelo puó solo essere lungo e faticoso. Io, nei paesi in cui ho vissuto, ho cercato di camminare al passo dei miei fratelli e sorelle della comunitá locale, cercando di non creare ostacoli.

Per quanto riguarda la vita ecclesiale gli anni della Zambia sono stati i piú intensi. C’era allora il fermento delle comuntiá di base, e línculturazione era l’orizzonte teologico entro il quale ci si muoveva. L’ aria fresca che era entrata nella chiesa quando Papa Giovanni si era accorto che la chiesa aveva bisogno di spalancare la finestra sul mondo era ancora in circolazione.

Non ho mai avuto rimpianti. L’Africa mi ha restitutito non cento, ma mille volte, quello che ho lasciato. Ho visto ripetersi mille volte il miracolo del seme che muore e rinasce, e quello del seme piccolissimo dal quale nasce una grande albero. Se alcune delle cose che ho fatto sono cresciute, e’ perche il frutto che dá valore all’albero. Sono grato ai miei amici e fratelli e sorelle africane che hanno fatto frutitficare il lavoro che abbiamo fatto insieme,

In Africa ho approfondito la mia comprensione del senso cristiano della vita. Che i fallimenti sono piú importanti dei successi. Senza gli insuccessi, riconosciuti e direi quasi assaporati, amati, la chiesa rischierebbe di diventare una efficiente multinazionale della caritá. L’insuccesso, la Croce, ci aiuta a vivere nella fede.

Ho imparato anche che la virtú che dá un dolce sapore a tutto, anche agli insuccessi, ai tradimenti di coloro che si pensava fossero amici, é la bontá. La vecchia a volte vituperata bontá, che rende visibile la bontá di Dio sulla terra. Dio é buono, e e noi tutti siamo attratti dalla bonta’. Molte volte, in un ambiente difficile o ostile, la possibilitá di comunicazione e di dialogo é cominciata da un gesto di bontá che ho visto fare da una persona.

E, fra le tante cose, l’ Africa mi ha insegnato che la mia personale avventura umana non ha senso e valore se vista da sola, deve essere capace di dissolversi nel contesto della comunitá. Solo insieme ci possiamo muovere verso gli orizzonti di Dio.

Kizito

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